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Giuseppe Prezzolini, anarchico per indole e conservatore per vocazione

Se si volesse individuare il precursore del cosiddetto “politicamente scorretto” sarebbe obbligatorio risalire a Giuseppe Prezzolini. Non soltanto tenendo presenti le sue opere, ma soprattutto la sua stessa vita. Con l’infaticabile ricerca su se stesso e in mezzo agli altri, senza mai estraniarsi da eventi che sono stati epocali e avvicinando figure che hanno “costruito” il Novecento, Prezzolini ha realizzato l’ideale dell’uomo e dell’intellettuale controcorrente. A suo modo Prezzolini è stato un “rivoluzionario” ante litteram, obbligato dalla sua natura a dire sempre ciò che pensava, rischiando l’insuccesso, ma destando comunque ammirazione anche in chi lo avversava. E la sua “scorrettezza” politica, oltre che intellettuale naturalmente, risulta attualissima tanto da farne un paradigma dell’anticonformismo semmai questa attitudine fosse ancora diffusa. Purtroppo, come constatiamo, e come Prezzolini stesso prevedeva, si è affermata la moda della compiacenza, evoluzione dell’antico servilismo contro il quale nel suo Codice della vita italiana del 1917 cogliamo i segni di una rivolta che sarebbe divenuta la trama del suo pensiero nel corso della sua intensa e lunga esistenza, non esente da asprezze giustificatissime nei confronti dell’Italia sempre amata eppure paradossalmente detestata al punto da abbandonarla per “rifugiarsi” prima negli in Francia e negli Stati Uniti e poi in Svizzera da dove tornava, soltanto per qualche ora, ogni settimana per comprare la verdura al primo banchetto subito dopo il confine.

Eppure lui stesso s’identificava, in una certa misura, con gli italiani che radiografava impietosamente. Nel Codice leggiamo: “L’Italia non è democratica, né aristocratica. È anarchica”. Come dargli torto? E dicendo che “tutto il male dell’Italia viene dall’anarchia. Ma anche tutto il bene”, forse non rappresenta se stesso, anarchico e conservatore al tempo stesso (e non è un ossimoro) perché “contro l’arbitrio che viene dall’alto, non si è trovato altro rimedio che la disobbedienza che viene dal basso”?

PretoliniEccolo il più “politicamente scorretto” degli “apoti” (il termine fu coniato nel 1922 ed usato in articolo sulla “Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti), come  definì se stesso e coloro che ne seguivano gli orientamenti, rappresentato da Luigi Iannone nel godibilissimo saggio Giuseppe Prezzolini. Una voce contro il pensiero unico (Historica, pp.263, €18) che non è una biografia, un ritratto, un commento al suo pensiero, o forse è tutto questo, ma è soprattutto un piccolo “manuale di sopravvivenza” mutuato da Prezzolini stesso che può indirizzare ancora menti libere abbastanza da riconoscersi in un anarchismo pratico assumendo la logica conservatrice come estrema reazione al “pensiero unico”.

Prezzolini, nota giustamente Iannone, non nascondeva la valenza negativa “militando” (pur senza aderire a nessun movimento, neppure intellettuale) nel campo conservatore e “avvertiva tutto il peso di una posizione minoritaria e discriminata e per certi versi questo fatto lo inorgogliva”. Al punto che da “anarchico” quale si sentiva nei confronti più che dei poteri costituiti, dei costumi e delle mentalità derivanti dalla vulgata ideologica progressista, propose nel 1971 una strepitosa difesa del conservatorismo che più “rivoluzionaria” non la si potrebbe immaginare.

L’editore Rusconi, grazie al suo intelligente direttore editoriale Alfredo Cattabiani, chiese a Prezzolini di mettere in ordine le sue idee sparse in numerosi scritti per più di settant’anni. Non si fece pregare il vecchio fondatore de “La Voce” e con entusiasmo giovanile tirò fuori un essenziale quanto gustoso e accessibile (soprattutto) Manifesto dei conservatori.

Bisognerebbe spiegarlo ai masticatori di formulette politiciste quanto la “conservazione” abbia agito nella dinamica e nello sviluppo delle comunità nazionali nel corso della storia, almeno fino a quando non si è inteso rivoltare la storia stessa mettendo in discussione tutto ciò che era stato realizzato prima della Grande Rivoluzione del 1789. È con l’Illuminismo che, paradossalmente, il conservatorismo assume una maggiore consistenza culturale e politica connotando l’azione di coloro che alle nuove dottrine si opponevano. E oggi, ereditandone lo spirito, il “vero conservatore”, al quale Prezzolini si rivolge, non è chiamato a restaurare ciò che è scaduto irrimediabilmente, ma a custodire la brace che ancora arde sotto la cenere. “È tempo che l’uomo ritorni al suo metro”, dice, perché sta consumando la terra e dunque se stesso. Il progresso, insomma, non è infinito. E malauguratamente lo stiamo sperimentando.

Quando il 14 luglio 1982 Prezzolini si spense avendo appena superato la soglia dei cento anni, fu chiaro a tutti, a chi lo aveva amato e a chi lo aveva detestato, che con lui se ne andava forse l’ultimo intellettuale europeo del Novecento che aveva “usato” la cultura come un’arma contundente per combattere vizi (molti) e affermare le virtù dimenticate di un popolo che si era fatto nazione formalmente molto tardi, ma che della nazione aveva tutti crismi, come aveva intuito Alfredo Oriani in Rivolta ideale e La lotta politica in Italia, ben prima che gli eventi risorgimentali si compissero. Ed erano crismi culturali che soli giustificano la formazione di uno Stato-nazione.

Atipico in tutto, Prezzolini è sempre stato coerente. Un conservatore, appunto, senza grilli ideologici per la testa. Aveva un’idea della nazione, della società, dello Stato, dell’educazione, dello stile di vita, del modo di essere e di comportarsi corrispondenti a una visione appunto conservatrice, nel senso di recuperare ciò che era vivo della tradizione alla quale apparteneva e gettare tutto il resto che paragonava a inservibile ciarpame.

Anarchico o meno che lo si voglia considerare, oppure conservatore tout court come a tanti  piace interpretarlo, Prezzolini è certamente un  “rivoluzionario”, come fa intendere Iannone. E “rivoluzionario” lo è stato almeno due volte. La prima, quando ventiseienne fondò “La Voce”, giornale che raccolse le intelligenze migliori dell’Italia post-umbertina e le lanciò in un’opera di svecchiamento della cultura nazionale con l’intento di connetterla alle esperienze europee più all’avanguardia. La seconda, quando, dopo essere tornato in Italia dal lungo esilio volontario, prima a Parigi e poi a New York , si mise idealmente alla testa di un movimento conservatore che sarebbe stato tutto da inventare e, a quasi novant’anni, impegnò le sue ultime energie, che erano ancora tante, per innestare robuste dosi di realismo in un’Italietta sbandata, non meno di quella presente.

Tra questi due momenti, altamente significativi non soltanto della vita del più longevo e prolifico intellettuale italiano del secolo scorso, ma della cultura del nostro Paese, il rivoluzionarismo anarco-conservatore di Prezzolini è sempre stato evidente, pur non avendolo l’interessato mai apoditticamente rivendicato. Esso era semplicemente connaturato alla sua personalità che non sopportava le irreggimentazioni, gli stereotipi  dettati dalle mode, le lusinghe del potere. A tutto questo si opponeva tenacemente con l’intelligenza di uno spirito libero, ma anche con la consapevolezza che conservare una certa idea dell’Italia, legarla ad una visione decidente e partecipativa della democrazia, pretendere una sobrietà “risorgimentale” dai governanti era quanto di più “sovversivo” si potesse immaginare.

Anarchico e conservatore, dunque, piaccia o meno, è stato Prezzolini, ma anche “testimone scomodo” del nostro Novecento che ha attraversato sezionandolo e, nel contempo, contribuendo a formarlo. Con tutta evidenza non è  riuscito nell’intento di fare dell’Italia un Paese vitale,  moderno e legato alle sue tradizioni: se i suoi orientamenti avessero influenzato nel profondo i costumi e la politica, probabilmente noi oggi parleremmo un’altra lingua, non saremmo stati turlupinati dai demagoghi che ce l’hanno data a bere, non avremmo subito l’oppressione dei mediocri e dei voltagabbana, per sfuggire ai quali, nel 1925 Prezzolini decise di mettere tra lui e l’Italia l’Oceano, dopo un breve soggiorno nella capitale francese.

E l’Italia non gliela perdonò. L’Italia ufficiale, naturalmente, l’Italia dei partiti post-fascisti, resistenziali e democratici i quali, com’è noto, soggiacevano alla cultura comunista e azionista, ne erano subalterni quando non schiavi. L’Italia che addirittura lo rimosse, lo rinnegò, lo esiliò fino a quando un presidente della Repubblica, Sandro Peritini, non lo invitò nel giorno del suo centesimo compleanno al Quirinale per conferirgli il massimo riconoscimento letterario: la Penna d’oro.

Oggi Prezzolini è letto da pochi, palati raffinati si capisce. Tuttavia è consolante giovani studiosi come Luigi Iannone che lo riscoprano e lo ripropongano, tanto per opporsi ad una dimenticanza che non fa onore alla cultura italiana.

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