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L’Italia è recidiva sulle infrastrutture. E il debàt publìc inciampa ancora

North Stream, gas

Quando si parla di grandi infrastrutture l’Italia si sveglia sempre tardi. Non c’è da stupirsi se dunque aumenta a dismisura il gap con gli altri Paesi su trade, ponti e opere per l’approvvigionamento energetico. La prova è nel complicato percorso che sta affrontando alla Camera il decreto attuativo che prevede il cosiddetto debàt publìc, la stanza di compensazione per un vero dibattito pubblico tra i diversi attori coinvolti nella realizzazione di un’opera prima che aprano i cantieri. Come rivelato da Formiche.net a inizio anno la commissione Ambiente sta cercando di contemplare nel testo anche le infrastrutture energetiche, onde evitare futuri casi Tap.

L’INCIAMPO AL CDS

Il fatto è ad oggi manca ancora il parere del Consiglio di Stato che di fatto avrebbe consentito alla commissione presieduta da Ermete Realacci di dare il via libera alla norma. L’ok del Cds sarebbe dovuto arrivare la settimana scorsa ma a Montecitorio, dalle indiscrezioni raccolte, finora nulla è pervenuto. Il rischio concreto è che il parere della giustizia amministrativa arrivi troppo a ridosso del voto, impedendo di fatto alla commissione di approvare per tempo il decreto sul debàt publìc. Di conseguenza tutte le infrastrutture energetiche verrebbero di fatto tagliate fuori dal dibattito, con giganteschi rischi (ai quali l’Italia è purtroppo abituata) per la loro realizzazione. E non è un caso che in commissione ci sia una certa agitazione.

LO STOP A NATALE

Lo spacchettamento tra infrastrutture energetiche e non era avvenuto poco prima di Natale per mano del Ministero dello Sviluppo. Al Mise non avrebbero considerato le infrastrutture energetiche come appalti pubblici dunque senza diritto alla copertura del debàt. Insomma, una norma inutile per l’energia. Le Regioni da parte loro pare abbiano temuto un depotenziamento del loro ruolo nel confronto su questa o quella opera. Ma adesso a Montecitorio hanno scelto di riprovarci, decisi ad alzare il livello di protezione attorno ad opere legate all’energia e considerate di vitale interesse. Consiglio di Stato permettendo.

LA FUGA ALL’ESTERO

Se la politica (e la giustizia) frenano le grandi opere, ci si mette anche una spesa pubblica che perde terreno. Come ricordato dal Corsera proprio oggi, la quota di Pil destinata alle grandi opere è ormai al di sotto del 2%. Troppo poco per un Paese a corto di infrastrutture. Naturale quindi che molti general contractor, come Salini Impregilo, guardino ad altri Paesi (qui il focus di Formiche.net). Ciliegina sulla torta, la burocrazia. Il grosso delle imprese vanta infatti crediti milionari con lo Stato, come Condotte. Chi vuole investire in opere se lo Stato non paga?


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