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È l’anno di Aleksandr Solzenicyn: l’Occidente non lo dimentichi

Questo dovrebbe essere l’anno di Aleksandr Solzenicyn. Sempre che qualcuno abbia voglia di ricordarne il centenario della nascita ed il decennale della morte (Kislovodsk 11 dicembre 1918 – Mosca 3 agosto 2008): un pretesto per parlare di lui, della sua imponente e gigantesca opera di scrittore, di coscienza morale di società assuefatte alla pratica del terrore comunista che teneva in scacco il cosiddetto mondo libero.

Non sappiamo quanti avvertiranno l’obbligo di richiamare alla memoria l’uomo che prima di ogni altro sollecitò al dovere della verità governanti e intellettuali che tenevano gli occhi chiusi (quando non erano apertamente consenzienti) sul “sistema della menzogna” e sulla mostruosa condizione nella quale venivano tenuti numerosi popoli con la giustificazione ideologica della creazione dell’universo degli eguali. Qualcuno se ne accorgerà, probabilmente. Ma abbiamo la percezione che Solzenicyn sia stato come riposto nella capace scatola dei fastidiosi scomparsi. Le sue idee, paradossalmente, danno più fastidio oggi. I suoi scritti del post-comunismo prefigurano una società tradizionale, profondamente religiosa, radicata in una cultura che non andrebbe dissipata dall’avventurismo edonistico che produce una distrazione di massa ben concertata dagli oligarchi mondialisti.

Comunque, per quanto marginale, la  presenza di Aleksandr Solzenicyn non si è affievolita da quando è scomparso. Se ne parla poco, è vero. Ma dire che non compaia più sarebbe esagerato. Tuttavia ci attendiamo che nell’anno del doppio anniversario si intensifichino l’interesse per il suo pensiero e la riproposizione delle sue opere.

Il 9 febbraio 1945, soldato e scrittore, Solzenicyn fece la conoscenza dell’universo concentrazionario che avrebbe meticolosamente descritto mettendo a soqquadro perfino le coscienze comuniste che presero a guardare con altri occhi agli orrori dello stalinismo. Quel giorno, Solzenicyn venne prelevato ed internato in un campo di lavoro forzato con l’accusa di aver criticato Stalin in una lettera privata ad un amico. Fu condannato a otto anni di prigione e, scontata la pena detentiva, al confino perpetuo iniziato nel villaggio sperduto di Kol Terek, nella steppa kazaka. Dal suo peregrinare di esiliato in patria, punteggiato da soprusi indescrivibili e perfino da un tentativo di avvelenamento da parte del Kgb, vennero fuori i suoi capolavori di sofferenza e di speranza.

Alla fine di dicembre del 1973 un libro, pubblicato in Francia, proveniente dalla “cortina di ferro”, scosse il mondo occidentale. Rocambolescamente arrivato a Parigi, Arcipelago Gulag dell’ex-internato, ma non per questo meno libero, Aleksandr Solzenicyn cambiò radicalmente la prospettiva di chi riteneva possibile un comunismo dal volto umano. Il primo volume dell’opera, concepita fin dal 1958, cui ne sarebbero seguiti altri due, divenne il simbolo della denuncia del sistema sovietico. Il manoscritto giunse in Europa in più copie, grazie ad una “catena” clandestina di diffusori e la pubblicazione venne decisa quando il Kgb lo sottrasse ad una dattilografa che non aveva avuto il coraggio di distruggerlo. La donna s’impiccò, il libro venne alla luce. Ed ebbe il fragore di un’esplosione: per la prima volta veniva raccontata dettagliatamente la vita nei campi di concentramento dell’Urss, le immense e disumane sofferenze, come si moriva e si veniva gettati nella fornace dell’oblio.

Solzenicyn era uno scrittore già famoso. Nel 1970 gli era stato attribuito il Nobel per la letteratura che non poté ritirare. Era reduce dai campi di detenzione dove aveva visto in faccia il volto disumano del comunismo, diventò il nemico principale del regime. Il 13 febbraio 1974, due mesi dopo l’uscita a Parigi di Arcipelago Gulag, venne deportato nella Ddr e privato della cittadinanza sovietica. In quello stesso mese scrisse il suo testo più significativo sotto il profilo politico: Vivere senza menzogna, l’atto d’accusa più violento contro il sovietismo. Dopo quasi due anni trascorsi in Svizzera,  si trasferì negli Stati Uniti, nel Vermont, dove rimase fino al 1994 quando fece ritorno in Russia, finalmente libero, e vi morì, a quasi novant’anni.

La sua opera più celebre che lo fece riconoscere al mondo come il capofila del dissenso (erano gli anni in cui il breznevismo veniva contestato da scienziati e letterati come Sacharov, Siniavskij, Maximov, Bukovskij, ecc.), provocò un terremoto quasi ovunque tranne che il Italia. Irina Alberti, a lungo sua amica e traduttrice, ricordava che in Italia su Solzenicyn si riversarono valanghe di calunnie, nel tentativo di limitare la portata delle rivelazioni contenute in Arcipelago Gulag. L’Alberti ricordò anche che quel mastodontico “memoriale” venne “scritto solo di notte, al chiaro di luna di una casupola abbandonata in riva al mare estone, d’inverno, senza mai accendere la stufa perché nessuno si accorgesse che c’era qualcuno in quel luogo considerato disabitato”. Ripensando a quel lavoro, Giovanni Paolo II, ricevendolo prima  che tornasse in Russia, gli disse: “Molte delle cose che ho fatto le ho fatte pensando a lei e grazie a quel che ci ha saputo dire”.

Non lo ringraziarono, invece, gli intellettuali italiani, il sistema editoriale e culturale:  venne messo ai margini del dibattito sul comunismo come un “provocatore”. A differenza, per esempio, di quanto accadde in Francia dove il tormento in molti spiriti aveva agito fino ad indurre alcuni tra i più giovani e brillanti studiosi marxisti a denunciare l’ideologia cui pure si erano votati e a dare vita alla corrente dei “nouveaux philosophes” (Bernard-Henri Levy, André Glucksmann, Jean-Marie Benoist, tra gli altri), grazie anche alle rivelazioni di Solzenicyn.

cover malgieriIn Italia l’evento editoriale, politico e letterario di fine dicembre, passò quasi sotto silenzio e quando non fu più possibile tacere, i tamburi dell’intellighentia cominciarono a rullare. Mondadori pubblicò Arcipelago Gulag il 25 maggio 1974, cinque mesi dopo l’uscita in Francia. Ma si premunì di riversare tutta l’attenzione su una star della letteratura e del giornalismo dell’epoca: Oriana Fallaci. Quella che allora era l’icona di un certo progressismo (salvo anni dopo ricredersi) fu “utilizzata” facendo uscire pochi giorni prima del libro di Solzenicyn, la celebre Intervista con la storia, al cui battage pubblicitario l’editore dedicò moltissime risorse, mentre allo scrittore russo che denunciava i crimini di Stalin quasi nessuna attenzione riservò, né tantomeno si diede da fare per innescare una discussione simile a quella che si era sviluppata in Francia e negli altri Paesi europei. La Fallaci, dunque, fu inconsapevolmente utilizzata per oscurare Solzenicyn. E dire che Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori, mostrava anche disappunto perché nessuno si occupava dell’Arcipelago. Come se non sapesse che l’egemonia culturale comunista aveva da tempo fatto breccia non soltanto nei giornali, ma anche in importanti case editrici come la Mondadori.

Le recensioni in effetti furono pochissime e poco autorevoli. Rimane agli atti una di Pietro Citati, apparsa sul Corriere della sera il 16 giugno, che pur apprezzando il libro di Solzenicyn ritenne di dover aggiungere queste parole delle quali non se ne avvertiva la necessità: “Per coloro a cui la fortuna ha risparmiato una prova così atroce, credo che sia più proficuo dimenticare del tutto…”. La “distrazione”, comunque, non bastava agli aedi della rivoluzione. Occorreva dedicarsi alla denigrazione. E non si risparmiarono. Arcipelago Gulag venne “smontato” da Carlo Cassola sotto il profilo “artistico” in quanto il suo autore non valeva nulla, a suo dire, su quel piano; Umberto Eco, sempre in prima fila accanto ai sostenitori delle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”, definì Solzenicyn una sorta di Dostoevskij da strapazzo; Alberto Moravia sull’Espresso lo liquidò come un “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”. Del linciaggio presero atto, insieme con pochissimi altri, per contrastarlo, lo slavista Vittorio Strada ed il grande giornalista Enzo Bettiza. Questi denunciò, senza mezzi termini, “la vergognosa offensiva di vasta parte della cultura italiana”.

Fu così che la sinistra intellettuale al potere in Italia, quarantaquattro anni fa diede il peggio di se stessa scagliandosi non contro la verità di Solzenicyn, ma contro la verità tout court. Quella stessa che il 9 novembre 1989 finalmente emerse tra le rovine di un muro abbattuto nella capitale dell’Europa divisa. Solzenicyn era lontano, ma restava comunque malinconico cittadino dell’Arcipelago Gulag.

malgieri1Nel 2015 , settant’anni dopo il primo arresto, una piccola e raffinata casa editrice, Piano B, ha pubblicato Il mio grido dello scrittore russo. È una raccolta di saggi brevi, discorsi, testi di conferenze e articoli ormai introvabili in Italia e per la prima volta pubblicati in un volume unico. Tra essi possiamo rileggere testi con accenti a dir poco profetici, tra i quali l’allocuzione tenuta in occasione del conferimento del Nobel nel 1974 che dà il titolo all’antologia, La gente ha dimenticato Dio, Vivere senza menzogna, Un mondo diviso.

All’ateismo e al relativismo Solzenicyn contrappone la certezza di una rinascita spirituale e la necessaria accettazione da parte di ognuno della propria responsabilità di fronte all’oppressione dei progetti totalitari. Soprattutto, nelle sue ispirate parole, ritroviamo descritta la nostra condizione: “Il mondo occidentale – disse ad Harvard, davanti a ventimila presone, nel 1978, prendendo la parola dopo quasi tre anni di silenzio – ha smarrito il suo coraggio civile, sia nel suo insieme che separatamente… Un tale declino del coraggio è particolarmente evidente nelle élite al potere e negli intellettuali, con ciò causando una perdita di coraggio da parte di tutta la società”. Vedeva lontano lo scrittore: “La società dimostra di essere quasi del tutto indifesa contro l’abisso della decadenza umana”. L’accento posto esclusivamente sui diritti, trascurando completamente i doveri era, a suo giudizio, la causa del disfacimento occidentale che non sembrava (e non sembra) avere le riserve necessarie per reagire alla contaminazione del materialismo. Così come l’accurata “selezione che separa le idee alla moda da quelle che non lo sono” induce soprattutto i giovani a deviare dalla strada della ragione. Di conseguenza si assiste a un Occidente “liberatosi” dall’eredità morale dei secoli cristiani e pervenuto alla sua crisi ed allo smarrimento che lo pervade.

Il mondo occidentale, dunque, si trova di fronte a una svolta decisiva “paragonabile a quella che dal Medio Evo condusse al Rinascimento”. Il riscatto, secondo Solzenicyn, esigerà “un’elevazione spirituale, un’ascesa verso nuove altezze di intendimenti, verso un nuovo livello di vita dove non verrà, come nell’era contemporanea, calpestata la nostra natura spirituale”. Insomma, all’Occidente non è data altra possibilità per rinascere se non di riappropriarsi del suoi valori, delle sue tradizioni, della sua storia e orgogliosamente difendere questo patrimonio di fronte alla decadenza che ne indebolisce le fibre.

Rileggere oggi queste pagine è angosciante, riflettendo sul tempo trascorso e su quanto la condizione dell’Occidente sia degenerata. Immemori del tempo andato e fermi alla caduta del Muro di Berlino, in particolare gli europei mostrano un certo fastidio di fronte alle stringenti analisi di Solzenicyn. Ne è prova il silenzio che cinque anni fa avvolse il quarantesimo anniversario della pubblicazione di Arcipelago Gulag e l’espulsione dello scrittore dalla discussione sui nuovi assenti mondiali che vedono soccombente quello che una volta veniva considerato  il “mondo libero” contrapposto al mondo totalitario comunista.

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