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“Tramonti”, saggio su un mondo che finisce, mentre un altro non inizia

Si sono dissolte le appartenenze che hanno dato senso e valore alle nostre esistenze. Non c’è più niente che ci tiene legati a qualcosa a parte l’intima adesione a principi personali che decliniamo nella maniera che ci detta la nostra sensibilità. Ma anche questa specificità non accende tendenze all’unione verso coloro che sostanzialmente nutrono il nostro medesimo sentire. Gli acciacchi dei secoli sembra che li abbiamo interiorizzati tutti e sono esplosi fragorosamente al debutto di questo millennio. Avremmo potuto raccogliere i frutti del “secolo breve” o, come sempre più mi appare, “lungo” abbastanza da aver determinato le catastrofi presenti, ma non lo abbiamo fatto. Incapaci di discernere il bene dal male ereditato, abbiamo scavalcato ogni cosa semplicemente gettandocela alle spalle. Dunque, non abbiamo creato una nuova morale, un nuovo sistema di valori, una nuova idea di comunità umana. Ci siamo semplicemente baloccati con le scorie del passato, un gioco  che alla distanza ci ha annoiati. E quel che rimane tra le nostre mani è il nulla, altrimenti qualificato come “nichilismo” che è la sostanza della contemporaneità, fonte di tutti i “tramonti” possibili, benché ad enumerarli sostanzialmente ci vuole poco considerando quelli che maggiormente avvertiamo prossimi alla nostra sensibilità. E sono “tramonti” che segnano l’epoca presente, annunciati da un passato prossimo nel quale pure qualche voce si era levata annunciando ciò che fatalmente sarebbe accaduto: la fine di una storia senza che un’altra iniziasse.

veneziani.jpeg“Tutto sembra sgretolarsi e naufragare, perdere senso e consenso, ma nulla sorge al loro posto, solo un magma mutevole e indefinibile, un mondo senza confini e pieno di puntini che si credono tutti al centro dell’universo: un pulviscolo di egoismi cosmici in un mondo spaesato”. Ecco la definizione della decadenza; la descrizione di rovine tra le quali smistiamo sentimenti e passioni residui e forse qualche speranza; l’orizzonte sul quale si staglia il disincanto nell’ora dei Tramonti, appunto, descritti così da Marcello Veneziani nel suo sontuoso, amaro, ma tutt’altro che apocalittico saggio metastorico e metapolitico (Giubilei Regnani, pp. 301, € 18): “Un mondo finisce e un altro non inizia”, reca il sottotitolo, che riassume il disagio della nostra epoca. Un’opera la sua non certo pensata, scritta e pubblicata per contribuire ad alimentare la pietà verso  noi stessi, ma per confessare realisticamente che “dopo” le destrutturazioni avvenute nella seconda metà del Novecento, i cui prodromi, a mio giudizio, sono da ricercare nella Grande Rivoluzione del 1789, nulla di duraturo è sorto lasciandoci con le nostre incertezze, smarriti e frastornati. La fine di un mondo non è la fine del mondo, sia chiaro. Perfino il più grande esperto di “tramonti” qual è stato Oswald Spengler non lo ha mai creduto; anzi si era perfino illuso che un qualche Cesare potesse restituire all’Europa (coincidente al suo tempo con l’Occidente, è bene chiarirlo) un qualche ruolo e forse prepararle un avvenire, e non è certo stata colpa sua se quei Demiurghi non furono all’altezza del compito al punto di deluderlo e gettare il morente Continente nella fornace della dissoluzione. Ma nelle Urfragen di Spengler si colgono pure barlumi di un possibile “ritorno” a condizione di riconnettersi al passato, non per celebrarlo nostalgicamente, bensì per suggere dalle origini del mondo decaduto i frammenti vitali che potrebbero rigenerarlo.

La tradizione? Forse. Ed è probabile, al punto in cui siamo, che sia la sola rivoluzione praticabile: la dinamicità del presente connessa a valori che danno il senso all’esistenza. Veneziani non è Spengler e neppure ne ha mai rivendicato la filiazione culturale per quanto non abbia  smesso di lasciarsi suggestionare dalla sua morfologia della storia, ma come il filosofo tedesco sa bene che la radicalità della crisi non può che avere due sbocchi: il disfacimento totale o la rigenerazione. Chi ha, come Veneziani, buona coscienza del passato, nutre questa seconda aspettativa immaginando che la fine della modernità può aprire lo sguardo su nuovi paesaggi. E perciò i “tramonti” cui applica la sua riflessione non sono che le epifanie di una più profonda crisi a cui i tormenti della fine del comunismo, della decadenza dell’Occidente, delle idiosincrasie che minano la stabilità della Chiesa, della scomparsa della destra come forza propulsiva di innovazione nella tradizione, dell’inquietante sbiadire della democrazia soffocata dalle oligarchie che inevitabilmente vestono panni democraticamente intonsi, non fanno altro che rendere palese la fine di quel mondo, appunto, nel quale ci siamo per oltre un secolo riconosciuti.

Forse l’aforisma nietzscheano, riproposto dall’autore – “Vi sono ancora tante aurore che devono risplendere” – più che di buon auspicio vuole essere la constatazione da parte di un uomo che, per quanto possa rigettarlo (non saprei a dire la verità), ha interiorizzato nella sua vita spirituale ed intellettuale un certo “faustianesimo” (ecco che Spengler ritorna) e, proprio per questo, si sente uomo europeo che rifiuta l’ineluttabilità del tramonto e non si estasia di fronte ai “tramonti” che pure aveva lucidamente previsto ed analizzato in opere che personalmente sento vicine. Come questa opera nella quale la fine del comunismo è spiegata con l’avvento di un neo-comunismo globalista e liberale (Marx addio!), con l’adesione ad un universo di diritti inventati che hanno sovvertito l’ordine naturale, con l’accesso di una sinistra in frantumi post-totalitaria nel magico mondo della “crescita infelice”. E, a corredo, il “tramonto dell’Occidente” viene ravvisato nel suo “sconfinamento” nel momento in cui “porta a compimento globale e lo esporta ovunque… si scioglie nella globalizzazione fluida e nell’uniformità planetaria”: insomma, rinuncia a farsi riferimento per costruire il suo “modello” relativista, determinista, economicista, ovunque, senza rispettare alcuna specificità e, dunque, rinunciando alla sua prerogativa di tolleranza che aveva segnato nei millenni la costruzione di un’Europa che politicamente non era ancora tale, ma certamente lo era dal punto di vista culturale. E della Chiesa, nella quale si è vieppiù addensato il “fumo di Satana”, come prevedeva Paolo VI, che dire se non che l’infedeltà allontana i fedeli (pochi) e che un “ospedale da campo” può essere un ricovero terreno, non certo la stazione di passaggio per l’eternità. E poi la democrazia, interpretata come veicolo del “pensiero unico” dell’uniformità assoluta, strumento per dominare i popoli che non la richiedono e pretendono invece il rispetto delle loro tradizioni, come assolverla dal tradimento perpetrato? È fallita in Occidente, non si afferma in Oriente, non è neppure penetrata in Africa e non è in grado di dare stabilità al mondo: le sue organizzazione provocano diseguaglianze (nel nome di un astratto e giacobino egualitarismo), infelicità e conflitti. Fallita la Società delle Nazioni, si è riproposto un modello di governo mondiale del quale non si conoscono vertici e meccanismi di attivazione del consenso.

Infine la destra. Veneziani non le risparmia nulla, com’è giusto che sia. È il suo mondo privato e pubblico. Un punto di vista che va rispettato, al di là della condivisione. È il capitolo più “sofferto” del libro, soprattutto perché spiega come l’eliminazione della destra dal panorama politico-culturale italiano è stato attivato dalla destra stessa. Essa non è quasi sparita “perché ha fatto troppo la destra”, è morta piuttosto d’anemia “perché si è resa neutra e incolore, perché si è uniformata per confondersi; perché non ha inciso, non ha lasciato segni distintivi del suo passaggio”. Insomma: “Non è morta d’identità, ma di nientità, non è morta di estremismo, ma di mediocrità”. È immaginabile una resurrezione della destra? Ci sarebbe bisogno di qualcosa che al momento non s’intravede all’orizzonte: ridefinire cos’è la destra innanzitutto (al di là del termine stesso) e immaginarne i confini.

Se un po’ ci si intriga sul tema, credo non si possa concludere diversamente che  essere di destra oggi vuol dire aderire ad una visione spirituale della vita e del mondo; riconoscere la centralità della persona e tutelarla in tutte le fasi della sua esistenza; ritenere che soltanto nell’ambito del diritto naturale è possibile costruire una “teologia politica” nel senso che riconosca i suoi limiti, come indicato da Edmund Burke, e non si attribuisca prerogative salvifiche che appartengono ad altre dimensioni; sostenere, difendere, salvaguardare la nazione, la Comunità, lo Stato ed attribuire ai corpi intermedi la rappresentatività che è giusto abbiano; esprimere un decisore come simbolo dell’unità nazionale fornendogli prerogative e poteri legittimati dalla volontà popolare; lottare contro l’omologazione culturale, il pensiero unico, il “mercatismo” per affermare il diritto alla differenza ed in base a questo riconoscere legittimità a tutte le culture e alla libertà dei popoli di autodeterminarsi. Da questi principi discende tutto il resto che sarebbe lungo elencare, ma non vorrei dimenticare che di destra si è tali per l’adesione a valori in antitesi con il determinismo e il relativismo. Insomma, il perimetro nel quale Dio, patria e famiglia hanno cittadinanza è il perimetro di chi sta a destra, con tutto quel che ne consegue. Anche in relazione ad una certa idea dell’Europa che non è, in questo spirito, una società fondata su relazioni commerciali governata da tecnocrati e banchieri, ma una comunità di destino nella quale sono legate culture, storie, memorie, esperienze che rimandano alle profondità di una civiltà plurale in grado, nei suoi momenti più alti, di dialogare con altre civiltà. Il modello romano e quello federiciano, in questo senso, restano insuperati, a mio avviso. Essi resteranno, presumo, anche quando cadranno le mura  finanziarie e mercatiste di Bruxelles e di Francoforte.

“Il futuro – scrive Veneziani – è la tradizione nella versione ventura, è il suo domani. Ogni nuovo inizio è un ritorno all’origine. Ma la tradizione ora è ferita, sgualcita, tradita e ne vanno ridefiniti i contorni, il lessico, i significati”. Una cultura della rinascita, oltre i “tramonti”, dovrebbe avere questo scopo per dare un senso a se stesso e legare il “mondo nuovo” ad un destino.

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