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Il rigore europeo sui conti non è servito. Parola del gruppo dei 20 di Paganetto

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Ridurre il debito pubblico italiano potrebbe non essere la priorità delle priorità. E il rigore di stampo europea ha miseramente fallito. Per un Paese col terzo stock al mondo (quasi 2.300 miliardi) e coi conti pubblici spesso ballerini sono affermazioni di un certo peso.

Ma forse è proprio per questo che vale la pena prenderla in considerazione se non altro per capire il senso dell’incontro Vincoli e Priorità per l’Italia. Deficit e Debito Pubblico Vs Lavoro e Reddito, organizzato a Roma, presso la Scuola dell’amministrazione dal gruppo dei 20, nato in seno alla Fondazione Tor Vergata. D’altronde, con l’ipotesi di un governo Lega-Cinque Stelle, parlare di spazio di manovra in Ue è più che lecito visto che sia il partito di Matteo Salvini, sia il Movimento di Luigi Di Maio non hanno mai nascosto la loro avversione alle politiche rigoriste europee.

Il punto di vista è arrivato da Luigi Paganetto, presidente della Fondazione, per il quale “la riduzione del debito pubblico potrebbe non essere la vera priorità del momento. Con questo non voglio dire che debba aumentare, attenzione, ma se per esempio il debito rimanesse al livello attuale, senza crescere più e questo ci consentisse di concentrarci più sulle politiche per la crescita, allora penso che questo ragionamento si potrebbe prendere in considerazione”.

D’altronde il senso dell’incontro è racchiuso in poche righe poste a conclusione di un’analisi presentata da Giampaolo Galli, economista già deputato del Pd e Lorenzo Codogno, della London school of Economics. E cioè, inseguire a tutti i costi il rigore fiscale di matrice europea può non sempre portare benefici dell’economia. Anzi, un’eccessiva stretta sui conti pubblici potrebbe addirittura innalzare il livello del debito pubblico. Insomma, troppo rigore fa male.

“Siamo convinti che un’eccessivo livello di consolidamento fiscale abbia degli effetti distorsivi sulla crescita e più in generale sull’economia, quando invece un aumento della spesa nel breve termine può portare a una crescita del Pil”, ha aggiunto Galli. “All’Europa dobbiamo chiedere di modificare il Fiscal Compact, che oggi viene rinviato di anno in anno perché prevede regole che non favoriscono l’aggiustamento dei conti di cui abbiamo bisogno. Aggiustamento graduale e credibile”.

Secondo Andrea Boitani, docente all’Università del Sacro Cuore di Milano, addirittura l’austerità “ha fatto aumentare la disoccupazione. Oggi posso dire che applicare delle politiche di rigore, recessive, in un momento di crisi, come nel recente passato è stato sbagliato”. Riferimento non troppo casuale a quanto finora dall’Unione europea, anche spinta della Germania. Boitani però, a differenza di Paganetto, sposa in pieno la tesi della riduzione del debito.

Un’altra lettura della gestione della crisi in Italia e in Ue è stata data da Giovanni Tria,  preside della Facoltà di economia di Tor Vergata e presidente della Scuola dell’amministrazione. “Il fatto è che oggi non stiamo tanto meglio rispetto al 2008, anno di inizio della crisi. Il debito pubblico non è stato intaccato, ma forse solo frenato, tanto per fare un esempio. E allora credo che l’unica vera strada sia tornare alla crescita: è la crescita che consentirà di ridurre progressivamente le tasse, e non il contrario”.

Tria ha ricordato come “in Italia gli investimenti sono ancora inferiori al 26% rispetto al 2007, quelli pubblici sono inchiodati al 28%”. Per questo serve “un programma europeo per immediato rilancio degli investimenti pubblici e non, rovesciando di fatto la politica di bilancio perseguita in questi anni, che ha visto la spesa pubblica privilegiare la parte corrente invece di quella dedicata agli investimenti”.

 

 

 



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