Skip to main content

Se la società frana e la politica abdica al populismo. La versione di Dario Di Vico

Una mappa aggiornata delle ansie e delle angosce della nostra società. Un viaggio attraverso le contraddizioni e la complessità dell’Italia di oggi di cui la disuguaglianza crescente – e a tutti i livelli – è una delle spie principali. “Un tema che non può e non deve essere semplificato”, ha commentato in questa conversazione con Formiche.net l’inviato ed editorialista del Corriere della Sera Dario Di Vico, che ha di recente scritto il libro “Nel Paese dei disuguali” (edito da Egea) presentato nella sede romana dell’Istituto per la Competitività (qui le foto di Umberto Pizzi e qui l’intervista realizzata a margine del dibattito con la vicepresidente di Confindustria Antonella Mansi). Oltre 160 pagine di agile ma dettagliato racconto di un’Italia di cui troppo spesso si fa a fatica a parlare, nel quale Di Vico ha evidenziato come la disuguaglianza assuma nel nostro Paese una pluralità di forme: generazionale, di genere, territoriale e non solo. Una realtà complessa che i soli e freddi numeri non sono in grado di cogliere e descrivere pienamente: “Gli economisti hanno semplificato la questione e l’hanno ricondotta unicamente ai temi della distribuzione del reddito. Nel libro ho cercato di fare una ricognizione più ampia e di mettere in rilievo come ci sia un’interessenza tra gli aspetti economici, sociologici e anche politico-culturali”. In questo contesto una valenza spesso sottovalutata – ha osservato Di Vico – la detiene il concetto di “deprivazione relativa”, che può essere “riferita alla scarto tra aspirazioni individuali e risultati conseguiti dal singolo” oppure concretizzarsi nella “sensazione che il proprio gruppo di riferimento sia stato defraudato rispetto a una condizione ideale e desiderata”. Il motivo per cui, ad esempio, chi arriva terzo a una gara olimpionica è più felice e soddisfatto di chi vince la medaglia d’argento. Un meccanismo psicologico che incide sulla disuguaglianza percepita e che, se esteso a interi o ampi strati della popolazione, come ad esempio i giovani, può produrre effetti evidentemente negativi pure in termini di sistema Paese: “Questo per dire che dentro le questioni della disuguaglianza convergono più elementi ed è necessaria per tale ragione una riflessione a tutto tondo”.

Tra gli aspetti che Di Vico ha messo a fuoco nel libro c’è pure quello che attiene all’origine della disuguaglianza e al suo rapporto con la crisi. “La lettura americana non può applicarsi al nostro Paese”, ha affermato il giornalista del Corriere che ha ricordato come la disparità reddituale si sia generata in particolare negli anni ’90, mentre la crisi ha soprattutto determinato una riduzione generalizzata della ricchezza delle persone, indipendentemente dalla loro condizione economica: “Nel caso italiano lo zoccolo duro delle disuguaglianze è rappresentato dalla questione giovanile e del mancato ingresso nel mercato del lavoro”. Un fenomeno da leggere anche alla luce di un’altra peculiarità italiana: “Abbiamo una spesa sociale che è ancora largamente determinata dalle prestazioni previdenziali, nonostante le importanti leggi di correzione approvate nel corso di questi ultimi anni. E’ chiaro che una spesa centrata sulla previdenza ha finito con il sacrificare le esigenze di intervento su singoli segmenti sociali a rischio”. Come emerge pure dal ritardo con cui il nostro Paese è intervenuto a sostegno di chi ha più bisogno: “Abbiamo accumulato notevoli ritardi tanto è vero che il Rei – il reddito sociale di inclusione – è stato introdotto da pochissimo: siamo stati il fanalino di coda nel prevedere un provvedimento di questo tipo”. Un esempio che la dice lunga.

Inevitabile per un libro che affronta il tema della disuguaglianza concentrarsi pure sulla questione della globalizzazione e dei suoi squilibri i cui effetti sono così dirompenti in Occidente, Italia compresa. In questo senso Di Vico ha osservato in primis la contraddizione esistente tra le conseguenze economiche e politiche della globalizzazione. Perché è vero che da un lato ha certamente contribuito a migliorare le condizioni di vita di milioni di persone in tutto il mondo, ma dall’altro ha anche avuto un innegabile impatto sull’economia dei Paesi occidentali, i cui cittadini hanno risposto al loro impoverimento generale attraverso l’arma più democratica di cui dispongono: il voto. Un cortocircuito ben rappresentato dall’esito di molte elezioni degli ultimi anni: “Milioni di cinesi sono usciti dalla povertà e hanno preso il dividendo della globalizzazione. Ma quei milioni di cinesi non influenzano il risultato elettorale dei mercati politici nazionali, come il nostro. E’ vero che la globalizzazione ha ridotto in assoluto il numero dei poveri, ma questo meccanismo non si è distribuito equamente sul mercato politico e ha generato quei contraccolpi che ben conosciamo. In fondo non è che i cinesi votino da noi”. I flussi dell’economia e della politica, d’altronde, sono asimmetrici. Una condizione generale che in Italia si è sommata a un’altra circostanza, tale da rendere il mix esplosivo: “Avere un sistema delle imprese in cui era forte la componente delle Pmi a basso valore aggiunto ha fatto sì che in Europa fossimo quelli che hanno pagato di più gli effetti della concorrenza della Cina”. La vera vincitrice della globalizzazione secondo Di Vico: “Ci sono centinaia di beni che non produciamo più. Le mollette e gli ombrelli, per fare un esempio. Dietro quei prodotti c’era occupazione. Siamo stati i più colpiti dai successi cinesi”. E la politica? La sinistra – ha confermato Di Vico – non rappresenta più, in Italia e non solo, coloro che più di tutti subiscono le disuguaglianze. La fine dell’utopia – cui il giornalista del Corriere si riferisce espressamente – ha fatto il resto. E la conseguenza è stato l’affermarsi dei populismi nelle sue varie forme.

In tutto questo, ovviamente, non si può dimenticare la questione meridionale e lo storico divario tra Nord e Sud: “Nel Mezzogiorno, nonostante ci siano significativi nuclei di industria, sta sprofondando la società. L’industria c’è e tiene. E’ la società che purtroppo sta franando”. Anche, o soprattutto, per via dell’atavica difficoltà dei giovani di trovare un posto di lavoro degno di questo nome, con l’inevitabile conseguenza di dover abbandonare il loro territorio per raggiungere altre zone del Paese oppure optare per l’estero.



×

Iscriviti alla newsletter