Ci sono libri che non invecchiano. Anzi, con il passare del tempo acquistano un’attualità sorprendente. Ne sfogliamo parecchi di questi tempi che andrebbero salvati dalle biblioteche murate dove il respiro dei secoli è soffocato dall’indifferenza di lettori alla ricerca soltanto di orridi libretti da sfogliare con la leggerezza che il tempo consiglia. E non si tratta soltanto di “classici” che nessuno legge più, ma di opere di alto valore civile che dovrebbero essere continuamente citate, studiate, portate ad esempio, riassunte in testi di letteratura ad uso degli studenti. Invece, niente. Ci si vendica del passato riponendo negli anfratti dove giacciono le anticaglie inutili i testi formativi di generazioni passate e, se ogni tanto, qualche editore si preoccupa di tirarle fuori dai capaci ed impraticabili magazzini nei quali giacciono, c’è chi è pronto a seppellirle con il silenzio, negando la più piccola citazione nelle pagine culturali dei giornali (sempre più avvizzite, scarne, prive di interesse, francamente talvolta inutili salvo rare eccezioni, soppiantate da notizie di gossip ed un po’ di spettacolo ad uso e consumo dello star system : sulla famosa “terza pagina” di un tempo una qualche riflessione andrebbe fatta come ha “consigliato” una giovane studiosa, Ada Fichera, qualche anno fa, pubblicando un saggio singolare e prezioso intitolato appunto Terza pagina, per l’editore Bonanno).
Frugando tra i libri “impresentabili” di autori ritenuti “innominabili”, capita talvolta di imbattersi in qualche volume che suscita ancora ammirazione e, magari ricordando la prima volta che lo si è avuto tra le mani (talvolta diversi decenni fa) suscita impressione e nostalgia. Ma poi, addentrandosi nelle sue pagine si coglie in esso non tanto il sapore antico quanto la “freschezza” di analisi che sembrano scritte oggi forse perché nessuno si azzarda più a scalare le vette dell’intelligenza e dell’anticonformismo. Mi è accaduto più volte, aggirandomi in una sorta di “biblioteca ritrovata” che coltivo amorevolmente e maniacalmente, di imbattermi in Alfredo Oriani (Faenza, 22 agosto 1852 – Casola Valsenio, 18 ottobre 1909) e sempre mi sono chiesto quale “colpa” abbia dovuto espiare questo grande scrittore della “nuova Italia” da essere così poco e malamente conosciuto. Ad eccezione di qualche saggio recente – ne ricordo a memoria quelli di Ugo Perolino e di Rodolfo Sideri – dobbiamo all’editore Nino Aragno la fuoriuscita dal “cattiverio” della dimenticanza, dalle prigioni dove scontano condanne comminate dai neo-giacobini della cultura, le due opere più significative (e ragionevolmente più coinvolgenti) di Oriani: La lotta politica in Italia, in due volumi, per complessive 1011 pagine (€ 50,00) e La rivolta ideale (pp. 400. € 20,00). Entrambe, ripubblicate pochi anni fa, pur incontrando l’interesse di alcuni autorevolissimi studiosi, e presentate con prefazioni di Norberto Bobbio (le sue pagine sono tratte dal Profilo ideologico del Novecento e francamente non rendono giustizia all’autore, ma semmai lo allontanano dalla sensibilità eh si dovrebbe avere nell’accostarsi a lui) e Lorenzo Ornaghi, non hanno suscitato, come sarebbe stato lecito attendersi, quella discussione pubblica che si riserva ad eventi editoriali meritevoli di attenzione anche perché la diagnosi di Oriani, in entrambe le opere, si attaglia benissimo alla comprensione tanto della formazione (ormai ignorata dai più) dello Stato unitario quanto della crisi spirituale che manifestatasi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si è prodotta fino ai nostri giorni aggravata da un relativismo preconizzato da Oriani stesso consapevole della decadenza e ad essa opponendo un richiamo civile che pure venne accolto da avanguardie intellettuali e politiche coscienti per poi essere seppellito, quasi come estremo gesto al tempo della “morte della Patria” in quella terra di nessuno che è pochi soltanto hanno avuto l’animo di attraversare.
La lotta politica in Italia, del 1892, è un affresco che dal 476 al 1887 riproduce il cammino della nazione italiana attraverso l’affermarsi della cultura prima e dell’idea politica poi. Il percorso di una coscienza, insomma che tra le tante difficoltà perverrà alla convinzione della propria forza fino ad affermarsi come “unità di destino”. Non poteva Oriani che credere in ciò che la storia gli aveva narrato e dunque trarre auspici per il futuro d’Italia: “ L’avvenire sarà di coloro che non lo hanno temuto”. Tanto bastava a Bobbio per relegarlo nei recinti di un impresentabile nazionalismo.
Se c’è un’opera che con un andamento “carsico” ha attraversato il secolo scorso, influenzando le personalità della politica e della cultura più diverse, questa è senza alcun dubbio La rivolta ideale, l’altro capolavoro dello scrittore di Casola Valsenio. Un’opera che da Mussolini a Spadolini, da Gramsci a Gentile, da Missiroli a Gobetti, da Papini a Serra, da Prezzolini a Croce, da padre Gemelli a Berto Ricci non ha lasciato indifferente nessuno tra coloro che hanno, sia pur con intenti diversi, cercato di dare un senso ad un’epoca che sembrava non averla. E oggi la leggiamo con lo stesso spirito di quanti si sentivano smarriti in seguito alla Grande Guerra. Cerchiamo anche noi un ideale, individuale o collettivo poco importa, che sia in grado di farci resistere alla crisi spirituale e culturale dell’Europa non diversamente da quanto si avvertiva nei primi due decenni del secolo scorso? Se la risposta dovesse essere positiva, il “testamento” di Oriani, per quanto eccentrico rispetto al nostro tempo, fa per noi. E già questo ci convince che l’opera in questione è davvero un “classico” divenuto tale da quando le nubi cominciarono ad addensarsi sui destini del Vecchio Continente.
Nel 1908, un anno prima della morte, Oriani pubblicò La rivolta ideale senza farsi eccessive illusioni. Come non se n’era fatte quindici anni prima quando diede alle stampe l’imponente Lotta politica in Italia. Entrambe le opere caddero nel vuoto. Come tutti i profeti inascoltati ebbe ragione soltanto “dopo”. E per quanto numerosi intellettuali si protesero incuriositi sul “solitario del Cardello”, fu necessario attendere l’avvento del fascismo per decretarne il successo. Mussolini ed i nazionalisti (Luigi Federzoni in particolare) lo ritennero un “precursore” della rivoluzione. La sua opera omnia in trenta volumi venne formalmente curata dal Mussolini stesso. E non fu una forzatura l’omaggio del regime dal momento che si identificava nelle idee di Oriani e nella sua concezione della nazione e dello Stato. Dopo si disse, com’era fatale, che lo scrittore faentino cadde nel dimenticatoio proprio per la sua “fascistizzazione” che non impressionò un serio studioso come Giovanni Spadolini o prima di lui Benedetto Croce. Era inevitabile. Qualcuno ha tentato di “defascistizzarlo”, come se fosse stato egli stesso l’artefice della propria fortuna postuma.
Oriani appartiene a tutti, al di là delle passioni. Resta il suo pensiero ed il complesso di un’opera con cui confrontarsi sia nel giudicare la decadenza che vedeva procedere a rapidi passi fin dai tempi di Dogali, sia nel considerare (o ri-considerare) lo Stato-nazione che giudicava pericolante ed oggi ne contempliamo le macerie.
La rivolta ideale venne scritta in cento giorni e, a giudizio del suo autore, era il suo «libro migliore». Un libro che tuttavia, come Oriani stesso presagiva, sarebbe cascato “nel solito pozzo del silenzio”. E così avvenne. Soltanto dopo alcuni anni si accese l’interesse attorno al volume ed al suo autore. L’editore Laterza, infatti, su consiglio di Croce, prese a ristampare numerose opere di Oriani e, per la loro «viva ricchezza spirituale», le indicò come il frutto di «un artista oggettivatore di drammi d’anime ». A giudizio di Benito Mussolini, poi, il quale già nel 1909 – fra i pochissimi estimatori – l’aveva giudicata «magnifica», l’opera conclusiva di Oriani rispecchiava, «in uno stile conciso, tacitiano che basterebbe da solo a costituire la gloria di uno scrittore», tutti i problemi, le passioni, le angosce e le speranze «del nostro tempo». Infatti l’opera di Oriani rivela una sorprendente attualità quando i tempi diventano più difficili. Sicché coloro che sono più sensibili alle convulsioni della storia riconoscono nella definizione che dà il senso al volume la via verso l’impegno e possibilmente il riscatto: “L’ideale solo è vero”. E’ questa la “cifra”, secondo Ornaghi, “con cui l’autore vorrebbe far riconoscere e apprezzare senza troppe incertezze o fraintendimenti l’anima della sua opera”.
Dopo aver passato in rassegna le problematiche spirituali connesse alle ricadute esistenziali e politiche della “modernità”, Oriani si congeda con struggenti parole contenute nell’ “Appello” che, sempre secondo Ornaghi, “è l’incitamento ad affrancarsi da ogni rassegnata accettazione della condanna, a combattere ogni pretesa fatalità del declino”. Eccole: “Adesso che la mia giornata s’interrompe nei crepuscoli della sera, guardo ancora alle cime pensando che sarebbe stato meglio il non discenderne mai, per quanto esse non siano più vicine delle pianure al cielo. Nell’ideale soltanto, sia pure una larva dentro un miraggio, è la bellezza della vita: se qualche cosa può somigliare alla verità, che non sappiamo, è la virtù che dà invece di ricevere e muta i sogni del dolore in opere di pensiero”.
La rivolta ideale è autentico “breviario” per chi non intende assuefarsi al “pensiero unico” dominante.