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Perché nel suo viaggio in Israele Mike Pompeo non ha parlato di Palestina. Tre ipotesi

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Due delle tappe con cui Mike Pompeo, appena eletto segretario di Stato, ha portato la bandiera americana vicina agli alleati, sono state Israele e Giordania. Due paesi strettamente alleati degli americani, la cui partnership è fondamentale su diversi ambiti, per primo la lotta al terrorismo islamico, e che sono divisi da posizioni contrapposte su un annoso dossier regionale: la questione israelo-palestinese.

Sul tema, il ruolo che gli americani si sono costruiti è quello degli interlocutori per entrambi le parti, in un complicato equilibrismo con cui “quando i rapporti tra le due parti si sono deteriorati, gli Stati Uniti hanno cercato di colmare il divario”, scrive il New York Times, ma adesso “no more“. Mai più? Intanto questa volta, in questo viaggio, quel ruolo di arbitro è stato tralasciato.

Nelle dichiarazioni pubbliche del messo con cui l’amministrazione Trump intende dare un nuovo corso – una nuova spinta – alla propria diplomazia c’è stato davvero poco spazio per l’argomento. Per esempio, durante la conferenza stampa tra Pompeo e il premier israeliano Benjamin Netanyahu la Palestina è stata chiamata in causa solo una volta: “Restiamo impegnati a raggiungere una pace duratura e globale che offra un futuro più luminoso sia per Israele che per i palestinesi”, ha detto Pompeo, e niente di più.

Eppure il contesto per affrontare l’argomento non mancherebbe. Israele e Palestina si trovano immersi in una delle più profonde crisi di questi ultimi anni. Quarantasei palestinesi sono rimasti uccisi e centinaia feriti dalla reazione durissima del governo israeliano alle proteste pubbliche che da almeno quattro venerdì si concentrano lungo il confine della Striscia di Gaza.

Quelle proteste sono collegate alla decisione trumpiana di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, una mossa con cui Washington cancella più o meno apertamente lo status internazionale della città, individuandola come capitale esclusiva dello stato ebraico.

L’apertura della nuova sede da cui opererà David Friedman, l’ambasciatore falco americano che Pompeo ha incontrato nella sua breve visita israeliana, è prevista per una data simbolica: il 14 maggio, giorno dell’Indipendenza per Israele e della Nakba, la catastrofe, per la Palestina – nella doppia lettura che tutte le vicende israelo-palestinesi hanno sempre.

Ma due giorni prima ci sarà un’altra data simbolica e meno complicata da affrontare davanti all’alleato israeliano: il 12 maggio gli Stati Uniti sceglieranno se rinnovare le sanzioni contro l’Iran che potrebbero definitivamente affossare l’accordo sul nucleare chiuso nel 2015 con Teheran – un argomento su cui Washington trova sponde e aperture ottime da parte di Netanyahu, che vede Teheran nemico esistenziali.

I media americani hanno raccolto una serie di commenti da parte di vari esponenti delle organizzazioni che amministrano la Palestina e tutti dichiarano che non c’è stato nessun contatto da parte del dipartimento di Stato per chiedere incontri durante il viaggio di Pompeo, ma d’altronde, “non c’è niente da discutere”, ha detto al Nyt Xavier Abu Eid, un alto funzionario del Dipartimento degli affari negoziali dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, perché i palestinesi considerano la decisione americana sull’ambasciata lo sfregio finale, il momento in cui Washington s’è dimostrata non in grado di essere un arbitro terzo sulla questione.

“Nessun incontro a Ramallah durante la sua prima visita pone un tono inquietante sulle prospettive di progresso o persino di dialogo con i palestinesi”, ha commentato Daniel Shapiro, ambasciatore americano in Israele durante l’amministrazione Obama.

Potrebbe essere programmatico, come suggerisce Shapiro, oppure Pompeo potrebbe aver scelto di evitare argomenti così complicati e delicati, per la sua prima uscita a poche ore dall’incarico. Oppure ancora, potrebbe aver accuratamente evitato di affrontare la questione per non oscurare troppo Jared Kushner, genero a cui il presidente ha affidato la questione palestinese (e altri dossier mediorientali) e che nel nuovo corso diplomatico americano potrebbe vedersi ridotti i propri poteri. Più probabile un mix dei tre aspetti.

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