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L’assurda vicenda del “semi-clandestino” Somaliland e la cronica disunione africana

somaliland

Confesso che – malgrado la mia dimestichezza con buona parte del continente “nero” – del piccolo Somaliland, regione settentrionale della Somalia schiacciata tra Gibuti e l’Etiopia e affacciata sullo strategico golfo di Aden, sapevo poco o nulla. Finché non mi sono imbattuto in una notizia che mi ha fortemente incuriosito: la pesante condanna – tre anni di carcere – inflitta ad una giovane poetessa, Nasima Qorane, responsabile di propagandare la tesi che il suo (nativo) paese – appunto il Somaliland – debba al più presto rientrare nel grembo della “grande Somalia”, cronicamente dilaniata da una sanguinosa guerra civile tra il nord e il sud, che – ufficialmente – sarebbe finita nel 2012, ma che invece resiste ancora, strettamente intrecciata alla crescente penetrazione dei terroristi jihadisti di “Al Shabaab”, i più feroci d’Africa.

Dopo una serie di contatti diretti e di verifiche, mi sono convinto che l’assurda vicenda del “semi-clandestino” Somaliland – lo Stato che “c’è, ma non esiste” – sia paradigmatica della cronica disunione africana, in larga parte eredità della lunga stagione del colonialismo europeo. Provo a sintetizzarvela non senza una sensazione di stupore.

Nel ’60 nasce la Somalia moderna, nazione indipendente frutto dell’unificazione tra l’ex-colonia italiana, preponderante, e il Somaliland britannico, minoritario. Nel ’91, dopo un decennio di aspro confronto con l’esercito centrale del sanguinario generale-dittatore Siad Barre, Davide si libera di Golia. E inizia la nuova – surreale – stagione del Somaliland repubblica sovrana: istituzioni parlamentari di stampo anglosassone e libere elezioni, pace interna dovuta ad una certa omogeneità etnica (laddove, a Mogadiscio e dintorni, i clan sono molti, voraci e l’un contro l’altro armati), capitale Hargheisa, moneta autonoma, inno nazionale, burocrazia sufficientemente efficiente, forze armate e polizia ben addestrate, rapporti economico-commerciali intensi con Gran Bretagna (naturalmente), Stati Uniti, Danimarca e alcuni vicini africani e arabi. Una nazione povera e (relativamente) isolata, spesso afflitta da siccità e carestie bibliche – grande poco più di metà del “belpaese”, quattro milioni di abitanti – ma una democrazia perfettamente funzionante, talvolta additata a modello: addirittura dipinta da alcuni “media” anglosassoni come “la faccia felice della Somalia”.

Eppure, a distanza di 27 anni dal “battesimo”, il Somaliland è ignorato dalla comunità internazionale, nascosto al mondo: nessuno stato del pianeta lo ha mai riconosciuto. Per Onu, Unione Africana e Ue è solo un’espressione geografica, considerato ancora – con un colpo di spugna sulla storia – un territorio autonomo ma all’interno della Somalia. La ragione è chiara: mix di cautela, “Realpolitik” e vigliaccheria. Strappare il velo che copre il Somaliland significherebbe probabilmente dare la stura alle sfrenate ambizioni secessioniste di altre inquiete realtà inserite nell’orbita di Mogadiscio (il Puntland, soprattutto) e accrescere pericolosamente le tensioni con l’Etiopia. Un effetto-domino che la Ua, preoccupata dell’endemica instabilità della Somalia (perno “monco” del Corno d’Africa), non intende permettere. E l’Occidente – malgrado l’evidente simpatia di cui lo Stato che “non esiste” gode a Londra, ma anche a Washington e in Arabia Saudita – non intende scavalcare la linea rossa tracciata dall’organizzazione che sovrintende ai destini del continente delle contraddizioni.

Non si sblocca il paradosso del Somaliland e l’assenza di concrete possibilità di uscire dal limbo sta lentamente erodendo la saldezza e la limpidezza della sua democrazia. In molti, ormai, ritengono che la via d’uscita obbligata – più o meno “gradevole” – sia il rientro a capo chino nel disordine di Mogadiscio. Così (e torniamo all’inizio) si spiega l’irrigidimento del governo di Hargheisa e i suoi primi provvedimenti repressivi, come quello che ha colpito la giovane poetessa “unionista”. Un peccato, visto anche l’impulso che stanno avendo le infrastrutture portuali e stradali del “paese-ombra”, nuovo prezioso corridoio per il cruciale Mar Rosso.


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