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Il rischio di una escalation con la Russia e il ruolo dell’Europa. Parla Rojansky

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“Il livello di tensione raggiunto con la Russia oggi è quasi senza precedenti, se si escludono i momenti peggiori della Guerra Fredda”, Matthew Rojansky – Direttore del Kennan Institute presso il Wilson Center di Washington DC – ha condiviso con Formiche.net il suo punto di vista sullo stato dei rapporti tra Usa, Europa, Italia e Russia.

Rojansky, come cambiano le relazioni tra Washington e Mosca all’indomani dell’espulsione dei diplomatici russi dagli Usa e la chiusura del consolato di Seattle?

Credo che la prima importante considerazione da fare sia che non vi è più un dialogo strategico tra la Russia e gli Stati Uniti. Si tratta di una relazione complessa, che ha funzionato solo quando le due parti sono riuscite a parlarsi e a confrontarsi con una base di principi reciproci ben chiari nella mente da parte dei rappresentanti dei due Paesi. Ad esempio, durante la Guerra Fredda si sono raggiunti picchi di tensione altissima ma – nonostante ciò – il fatto di avere un dialogo strategico sulle pur contrapposte posizioni di Usa e Russia è stato fondamentale. Questo vale con riferimento alla dottrina nucleare, alle guerre per procura che sono state combattute in quegli anni e per tanti altri temi economici e finanche umanitari. Oggi non abbiamo più quel dialogo strategico. Per molti americani non è chiaro perché dovremmo avere una relazione di qualsiasi tipo con i russi e ritengo che molti russi guardino agli Stati Uniti solo ed esclusivamente come una minaccia. È questo ormai lo stato dei nostri rapporti. Per rispondere alla domanda, credo che il problema maggiore nelle relazioni con Mosca sia rappresentato dal fatto che non vi è alcuna ragione per la quale guardare ad una riconciliazione. Abbiamo relazioni abbastanza positive a livello personale tra le due leadership ma una distanza quasi incolmabile tra i rispettivi establishment proprio perché da parte di entrambi non esiste al momento una direzione strategica chiara che si voglia seguire a livello internazionale.

Quale senso attribuire ai tweet di Donald Trump con cui ha voluto inaugurare una stagione di “non isolamento” verso Mosca, aprendo ad un coinvolgimento della Russia in dossier come la Siria e la Corea del Nord?

La dottrina isolazionista nei confronti della Russia ha sempre avuto due fondamentali problemi: prima di tutto – molto semplicemente – l’isolazionismo non funziona. Non si può affatto pensare di isolare un Paese come la Russia perché ci saranno sempre altri Paesi pronti a ingaggiare positivamente rapporti con Mosca invece di unirsi ad un possibile blocco da parte dell’Occidente. Seconda considerazione: ammesso e non concesso che sia possibile isolare la Russia, quale sarebbe il vantaggio? Se l’obiettivo da raggiungere è quello di far cambiare atteggiamento a Mosca allora sarebbe controproducente una strategia rivolta a sbattere la porta in faccia al Cremlino. Al contrario, avrebbe molto più senso aprire quella porta e lasciare entrare i russi. La chiusura non porta da nessuna parte e Mosca troverebbe il modo di rispondere a tono. Questo non farebbe altro che trasformare la tensione in una condizione permanente della comunità internazionale. È esattamente quello che sta accadendo oggi.

In che senso?

Credo che l’amministrazione stia provando gradualmente a impegnarsi in uno sforzo di confronto e penso che la leadership americana lo faccia partendo da una posizione chiara e ferma sul concetto di deterrenza sia che si parli di deterrenza convenzionale, nucleare ecc. L’idea è che se si pongono alcune linee invalicabili e lo si fa in maniera chiara e decisa sarà anche possibile negoziare con la Russia in altre aree del mondo in cui vi è una forte presenza da parte di Mosca. Questo obiettivo può essere raggiunto solo se si hanno ben chiare le linee invalicabili (red lines) nel dialogo con la controparte. Questo è possibile sulla base di due condizioni: prima di tutto c’è bisogno di credibilità. I russi devono essere portati a pensare che qualora superassero le red lines vi sarebbe una reazione incondizionatamente dura. La credibilità è dunque l’aspetto più importante nella partita. Poi, c’è bisogno di chiarezza nella definizione delle red lines: ad esempio, non si può immaginare che ogni questione internazionale possa essere una red line. In quel caso la chiarezza si trasformerebbe in ambiguità. Potremmo anche essere contrari ad ogni politica di Mosca ma questo non significa che ogni decisione russa sia da leggere come il travalicamento di una red line.

Come si evolve l’atteggiamento americano verso Mosca alla luce dei recenti cambiamenti organizzativi alla Casa Bianca?

Il livello di tensione raggiunto con la Russia oggi è quasi senza precedenti, se si escludono i momenti peggiori della Guerra Fredda. Si registra un senso generalizzato di sfiducia e un malfunzionamento assai pericoloso del dialogo con la controparte. In altre parole il rischio di una escalation (militare o di altro tipo) tra le due più grandi potenze nucleari è concreto. Si tratta di una condizione talmente negativa che è difficile immaginare che possa peggiorare, anche se qualcuno avesse in mente di farlo. Con questo voglio dire che nessun alto funzionario dell’amministrazione – pur volendo – potrebbe appesantire il quadro. Ciò mi porta anche a credere che l’amministrazione proverà piuttosto a capire in che modo contenere la minaccia di escalation. La domanda da porsi riguarda dunque la direzione da seguire a livello internazionale. E’ chiaro che vi siano numerosi interessi confliggenti ma è altrettanto chiaro che in questa fase vi sia necessità di dialogo. Detto ciò, l’amministrazione dovrebbe ragionare sugli argomenti da portare al tavolo della discussione.

La coercizione è ancora uno strumento valido alla luce del deterioramento dei nostri rapporti?

La risposta a questa domanda non può essere che negativa: abbiamo imposto sanzioni economiche quasi su tutto e c’è da interrogarsi sul peso e sull’efficacia delle sanzioni stesse. Varrebbe la pena di iniziare a domandarsi quali siano i piani su cui lavorare a delle aperture, ad esempio per un cambio di atteggiamento in Ucraina o anche in Siria per riportare la Russia al tavolo delle trattive. Allora, tanto che si parli dei nuovi ufficiali al National Security Council o al Dipartimento di Stato, credo sia difficile immaginare un atteggiamento diverso dall’apertura al dialogo con la controparte. Il problema non è tanto quello della direzione da seguire quanto quello della effettività delle scelte da fare: abbiamo ormai così pochi strumenti da utilizzare per porre un freno alla degenerazione dei rapporti al punto che i passi da fare siano quasi forzati. Siamo con le spalle al muro e lo stesso vale per i russi. Anche per questo motivo, ad esempio, durante la Guerra Fredda le alternanze politiche in seno a repubblicani e democratici consentivano un andamento altalenante dei rapporti con Mosca che non ha mai portato a soluzioni estreme ed irrimediabili. In un certo senso la migliore policy da seguire è dunque quella bipartisan.

In che modo si pongono i Paesi europei in questo scenario?

Credo che l’unico vero problema tra l’Europa e la Russia sia oggi rappresentato dal sorgere di movimenti nazionalisti e populisti nel cuore del continente, un qualcosa che Mosca avrebbe potuto auspicare e a cui avrebbe lavorato anche per indebolire i rapporti con gli Usa. La ragione di questi movimenti è individuabile nel collasso dei principi liberaldemocratici alla base dei nostri ordinamenti multilaterali, come l’Unione Europea ma anche la Nato e le altre organizzazioni internazionali. Ormai i cittadini sono portati a credere che queste istituzioni non siano in grado di risolvere i loro problemi più concreti quando si parla di libertà fondamentali ma anche di sicurezza ecc. La storia ci insegna che ogniqualvolta questo senso di sfiducia nel cuore dell’Europa ha prevalso, il conseguente cinismo e l’accanimento nella vita politica non hanno mai portato a nulla di buono per Mosca. Sfiderei chiunque a trovare un solo momento storico in cui la Russia abbia tratto beneficio dall’indebolimento della democrazia in Europa. Al contrario, si tratta di una condizione assai negativa tanto per la Russia quanto per gli Stati Uniti. Le relazioni tra Washington e Mosca passano per l’Europa e questi rapporti possono funzionare solo se da parte europea vi è stabilità e rispetto di quei principi liberaldemocratici che hanno dato fondamento alle istituzioni del vecchio continente.

Le elezioni in Italia comportano un effettivo rischio di avvicinamento alla Russia? Qual è la posizione statunitense a riguardo?

Sebbene non sia un esperto di politica italiana, posso dire che sarebbe un errore per gli Stati Uniti gettare benzina sul fuoco delle divisioni europee. Sarebbe sbagliato e controproducente per gli Usa additare singoli Paesi europei come filorussi quando vi sono dei problemi comuni da affrontare e risolvere. Non ci sono eroi o furfanti in Europa, questo deve essere chiaro. Vi sono, piuttosto, differenti modi di approcciare alle questioni transatlantiche e questo non determina solo rischi ma anche opportunità. Ciò che realmente conta è la lealtà e la correttezza nel declinare scelte comuni di politica internazionale da parte di tutti i Paesi occidentali. Ancora, il secondo errore da non fare è quello di usare i rapporti con la Russia come un banco di prova per le democrazie europee. In altre parole, è del tutto possibile che vi siano Paesi che godono dei rapporti con la Russia (penso ad esempio alla Finlandia) nel pieno rispetto dei valori occidentali. Dall’altra parte, è possibile che vi siano tensioni all’interno dei sistemi politici di alcuni Paesi (penso alla Polonia) ma – nonostante tutto – mantenendo una chiara posizione di chiusura nei confronti di Mosca. Con ciò voglio dire che non è giusto inquadrare le relazioni con la Russia come un indicatore del livello di nazionalismo all’interno delle democrazie occidentali e che l’affermazione di movimenti anti-establishment non necessariamente comporti un avvicinamento al Cremlino. Il vero rischio, piuttosto, sarebbe quello dello scardinamento dei valori liberali su cui sono stati fondati gli ordinamenti occidentali.


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