La Silicon Valley continua a confermarsi il driver di riferimento per l’industria tecnologica, ma le recenti polemiche sull’economia dei dati e sulla possibilità di frammentare i colossi americani del web per ridurne il raggio d’azione rischiano di nuocere non solo all’innovazione mondiale e alle aziende Usa, ma anche al vecchio continente. A crederlo è Sean Randolph, senior director del think tank Bay Area Council Economic Institute, già presieduto e guidato dal 1998 al 2015. L’esperto era nei giorni scorsi in Italia per partecipare al 2° Global Trade and Innovation Policy Alliance (GTIPA) Summit, assemblea di alcuni tra i migliori think tank del mondo organizzata in Italia in collaborazione con l’Istituto per la Competitività (I-Com) e Competere. Ecco che cosa ha detto a Formiche.net.
Randolph, la Silicon Valley continua a confermarsi il driver di riferimento per l’industria tecnologica. Eppure, soprattutto dopo il caso Cambridge Analytica, molti analisti ne segnalano alcune difficoltà. Quali sono dal suo punto di vista?
È importante notare come a fronte di una crescita esponenziale della Silicon Valley da un punto di vista dei numeri e dello sviluppo di tecnologie innovative, si assista a un dibattito – a onor del vero soprattutto europeo – sulla possibilità che i colossi del web siano troppo grandi e presenti ormai in molti mercati, e perciò vadano ridimensionati.
Come considera questa possibilità?
La trovo un’eventualità estremamente negativa per diverse ragioni. La prima è che altri Paesi come la Cina sono in grado di promuovere senza troppi ostacoli le loro aziende tech, che grazie al mercato interno godono proprio di un’economia di scala sufficientemente ampia per farne attori di primo piano, capaci di competere tanto nel campo dei social media, quanto nella ricerca in settori innovativi come i veicoli a guida autonoma e le applicazioni dell’intelligenza artificiale e del machine learning. È importante per gli Stati Uniti avere delle grandi compagnie di hi-tech che siano competitive sulla scena mondiale. A Pechino stanno mettendo in piedi enormi imprese che entreranno nel mercato globale senza essere frammentate, e noi dobbiamo essere pronti ad affrontare questa eventualità incoraggiando le big company a essere sempre più competitive. Ridimensionare solo le imprese americane potrebbe determinare effetti negativi sul piano della competizione internazionale e, in fondo, non gioverebbe nemmeno all’Europa.
Che cosa intende?
In Europa ci sono almeno 45 grosse compagnie che hanno deciso di stabilire proprio nella Silicon Valley i propri centri di ricerca e sviluppo. Per non parlare delle centinaia di start up del vecchio continente, circa trecento, che oggi trovano in quell’area il posto migliore per esprimersi e sviluppare i loro prodotti, destinati ad essere il futuro nell’ambito dell’innovazione.
Perché la Silicon Valley attrae così tanto l’Europa, dove certo non mancano poli d’eccellenza tecnologica?
Credo che si tratti prevalentemente di una valutazione d’opportunità di crescita. In Europa non mancano certo le competenze, ma una start up che vuole crescere fatica moltissimo a trovare investitori e venture capital. Ci riesce generalmente solo in una primissima, ma arrivato il momento di ricevere quell’iniezione di denaro necessaria per passare dall’idea alla messa sul mercato vera e propria allora qualcosa si inceppa. Nella Silicon Valley, invece, si incontrano molti finanziatori e persone che hanno già creato altre compagnie o la stanno sviluppando, e si crea un ambiente dinamico di esperti e giovani a stretto contatto che arricchiscono le proprie competenze a vicenda. Sicuramente è più facile ottenere una initial public offering (Ipo). E, oltre a tutto ciò, effettuare ricerca e sviluppo negli Stati Uniti rende le compagnie più competitive e pronte per entrare in un mercato ampio e globale come quello americano.
Altri dibattiti molto accesi in Europa sono quelli sulla tassazione dei colossi tecnologici e sulla loro responsabilità nel dover garantire piattaforme libere dalla possibilità che gli utenti possano essere aggrediti o condizionati dal punto di vista politico.
Anche in questo caso le critiche alle compagnie tech non mi trovano d’accordo. Le aziende del settore pagano esattamente quanto richiesto dalla legge vigente. Chi non è d’accordo potrebbe semplicemente cambiarla e risolvere così la questione.
Quanto alla disinformazione, invece, il punto non è se e quanto le azioni russe, ad esempio, abbiano influenzato il voto, ma piuttosto il fatto stesso che un’interferenza del genere sia una realtà fattuale. Bisogna esserne consapevoli e prendere le necessarie contromisure, ma senza dimenticare che siamo in una fase di transizione, perché queste tecnologie sono relativamente nuove e ci sarà bisogno di tempo per governarle in modo opportuno.
Quali trend vede nell’innovazione tech nei prossimi anni?
Senza far riferimento a specifici settori, credo semplicemente che sia difficile pensare ad un’industria che non abbia subito o che non subirà in futuro un impatto diretto e significativo derivante dalla digitalizzazione. Ogni azienda che vuole essere competitiva ha bisogno di digitalizzarsi e di farlo al più presto. Che si parli di servizi finanziari o biotecnologie, il dibattito sulla digitalizzazione delle imprese è sempre più dirompente.