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Ecco perché per Egitto e Turchia non cambierà nulla con la nuova crisi israelo-palestinese

Egitto

L’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme, le proteste palestinesi, la reazione israeliana, i morti, sono destinati a segnare un passaggio storico della crisi perenne israelo-palestinese, portandosi dietro potenziali riflessi anche sul contesto internazionale. Che peso avranno?

Per esempio, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, ha accusato Israele di “genocidio”, un richiamo terribile nei riguardi dello stato ebraico, usato per aizzare l’elettorato che deve sostenerlo alle elezioni anticipate del 24 giugno, sia come provocazione contro l’Occidente da cui si sta sempre più allontanando. Nessuno dei leader politici regionali e del mondo arabo ha usato toni severi come quelli del turco, perché?

Lo chiediamo a Giuseppe Dentice, ricercatore italiano specializzato nell’area accademicamente definita MENA, curatore di studi per l’Ispi: “Erdogan, non è né il primo né l’ultimo dei leader arabi che cerca di intestarsi la causa palestinese col tentativo di ricevere un riconoscimento internazionale. Attualmente la Turchia è abbastanza isolata, per questo il presidente prova a dipingersi come una potenza in grado di trovare una soluzione, pur sapendo perfettamente che attualmente nessuno è in grado di mettere mano alla crisi”.

“L’affare israelo-palestinese è in stallo, la situazione attuale rende impossibile nuovi negoziati, e – aggiunge Dentice – la Palestina è la prima a danneggiarsi da sola: basta pensare che è completamente divisa tra due realtà, Anp e Hamas, che non solo non sono in accordo sul come approcciarsi ai tavoli negoziali, ma addirittura si scontrono a suon di colpi bassi”.

Tra Turchia e Israele, inoltre, in questo momento i rapporti non sono eccezionali: Ankara aveva cercato di ricostruire le relazioni dopo la vicenda della “Navi Marmara” con cui si erano ufficialmente interrotte, Erdogan pensava agli interessi geopolitici nel Mediterraneo orientale, ma Tel Aviv ha chiuso accordi energetici con l’Egitto; una mossa che è sembrata escludere la Turchia da certe dinamiche.

L’Egitto, appunto. Oggi il bureau politico di Hamas, il gruppo terrorista che controlla la Striscia di Gaza e che secondo Tel Aviv avrebbe fomentato parte delle proteste di lunedì, è al Cairo per incontri. Che può succedere? “In realtà i più alti funzionari del gruppo palestinese sono in Egitto da qualche giorno, ci sono in corso colloqui che si basano su relazioni storiche” spiega Dentice, “poi, sì, certamente quello che è successo ieri sarà stato argomento di discussione, ma non credo che cambierà gli equilibri”.

Secondo l’analista dell’Ispi, in un momento come questo in cui “i rapporti tra stati sono regolati dagli interessi e non dall’ideologia, difficile che l’Egitto decida di lasciare indietro gli accordi energetici e gli affari di sicurezza condivisi con Israele per la causa palestinese”. Egiziani e israeliani, infatti, non hanno solo stretto un accordo di fornitura di gas a febbraio, ma hanno da tempo avviato anche una collaborazione nell’ottica della sicurezza del Sinai, dove la provincia locale dello Stato islamico sta diventando sempre più forte, un hub califfale, e si è trasformata in un grosso e delicato problema sul confini tra i due stati.

“Dal punto di vista generale – aggiunge Carlo Jean, generale di corpo d’armata italiano, presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica – in effetti è difficile prevedere che cambi qualcosa. Ci saranno strali, posture, posizioni, quasi dovute, ma poco significative”.

“Prendere delle misure troppo dure contro Israele significherebbe prenderle contro gli Stati Uniti, che hanno ricompattato l’alleanza e stanno anche dietro a quello che è successo ieri”, aggiunge Jean, riferendosi all’apertura della sede diplomatica americana a Gerusalemme. Inoltre, spiega il professore, occorre tener conto che “tutto quello che accade nel Medio Oriente al momento è frutto del confronto sempre più serrato tra paesi sunniti e Iran; ed Egitto e Turchia, sono paesi sunniti”.

Da tempo, infatti, si annota un avvicinamento tra Israele, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Egitto, accomunati – grazie anche all’azione catalizzante americana – contro un nemico comune: Teheran, sostenitore profondo di Hamas e di altri gruppi palestinesi armati, soprattutto per quel che riguarda il lato militare, nell’ottica dell’utilizzo di proxy contro Israele.

(Foto: Youtube, un cecchino israeliano)

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