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L’Is rivendica attentati in Libia mentre il paese è ancora bloccato

Fayez Serraj, Libia, trenta

Ieri Amaq News, finta agenzia stampa con cui il Califfato diffonde la propria propaganda, ha rivendicato con due differenti dichiarazioni due azioni terroristiche in Libia, su due posti di blocco a sud di Agedabia (est del paese). Si tratta di attacchi allo scoperto, ufficialmente rivendicati, che segnano un altro passaggio nel nuovo-vecchio modus operandi pubblico che lo Stato islamico libico sta riprendendo.

Nascosto per almeno quattordici mesi dopo la disfatta di Sirte – ex “fiorente roccaforte” dell’Is, caduta sotto i colpi dei miliziani misuratini e degli aerei americani – i baghdadisti hanno mantenuto un profilo basso, si sono mescolati, dispersi senza perdere le connessioni: poi via via hanno ricominciato a prendere il controllo di pezzi di territorio, hanno ricostruito il network di check point con cui controllano le strade a sud della città costiera, che per lungo tempo era stato la terza capitale del Califfato (dopo l’irachena Mosul e la siriana Raqqa), hanno rimesso in piedi i traffici, e infine si sono lanciati in azioni terroristiche – atti con cui sottolineano la propria presenza.

Lo Stato islamico libico non ha la forza dirompente che aveva tre anni fa, ma è comunque presente e rischia di sfruttare nuovamente le stesse condizioni socio-politiche che ne avevano permesso l’espansione, visto che in Libia niente è cambiato. Non c’è un governo, non c’è ordine, restano gruppi di milizie e centri di potere: restano zone fuori il controllo del governo che l’Onu ha provato a installare a Tripoli per riappacificare il paese – missione fallita – e da quelle della sua contrapposizione, Khalifa Haftar, maresciallo di campo con ambizioni politiche dato per morto qualche settimana fa, ora completamente riabilitato e alla guida della sua roccaforte di potere orientale, Bengasi.

Per capirci: Amaq ha chiamato con il nome de guerre l’attentatore suicida che s’è fatto esplodere a un posto di blocco dei militari haftariani ad Agedabia, Abu Ahmad al-Masri si chiamava. Il kunya indica che era un egiziano (al-Masri, l’egiziano appunto), e questo apre uno scenario terribile se si pensa che adesso in Egitto, nel Sinai, si è impiantato un grosso hub califfale che magnetizza jihadisti da varie parti della regione (sia dal Medio Oriente che dal Nord Africa, la cosiddetta area MENA) e che ha collegamenti con la Libia sfruttando le ampie fasce meridionali, territori ancora completamente al di fuori della legge.

Sia chiaro, l’Is non è minimamente vicino a essere la potenza che era per esempio nel 2015 (né in Libia né altrove), quando, per dirne una, un team di tre specialisti in arti cinematografiche fu inviato dalla Turchia, atterrò all’aeroporto Mitiga di Tripoli e poi si diresse a Sirte per montare il video con cui dichiarò la sua presenza sulle coste del Mediterraneo: i 21 egiziani copti sgozzati davanti alle telecamere, il mare di Sirte che diventava rosso di sangue, la chiusa delle riprese con una minaccia diretta verso Roma. Uno di video più famosi della storia dello Stato islamico.

Però in Libia da quei tempi poco è cambiato nella sostanza. I tentativi di riunire il paese sotto una stessa bandiera sono via via scemati. L’Onu non riesce a spingere Fayez Serraj, l’uomo scelto per guidare il processo di pace e riunire il paese, che è ancora senza una base politica adeguata, nonostante possa intestarsi la vittoria sull’IS statuale di Sirte. Haftar combatte a Derna contro gli islamisti del Consiglio della Shura che hanno liberato la città dall’IS, ma sono filo-qaedisti (vicini ad Ansar al Sharia, altro gruppo terroristico, anche se non baghdadista) e sta cercando di attirare di nuovo su di sé le attenzioni internazionali.

Gli attori esterni lavorano a rilento: l’Italia, che per lungo tempo è stato il motore diplomatico delle faccende libiche – anche godendo di un ruolo che gli Stati Uniti, anche per disimpegno, le avevano affidato – si trova orfana di una base politica in patria tale da poterne sorreggere gli sforzi all’estero. Il primo dicembre del 2017 il presidente Donald Trump ospitò alla Casa Bianca Serraj, ma al rientro in Libia il wannabe premier si ritrovò in mano niente di più di quel che aveva alla partenza: tanta retorica, buoni intenti, poca concretezza.

Washington non vuole avere una strategia sulla Libia: fonti diplomatiche spiegano a Formiche.net che il dossier dal punto di vista americano è trattato nell’ambito allargato dell’area MENA, e non riceve interesse strategico dal punto di vista politico, ma solo per quanto riguarda quello militare (e infatti un paio di mesi fa uscì la notizia che gli Stati Uniti avevano continuato a colpire l’IS libico, con discrezione, anche per non disturbare troppo l’opinione pubblica italiana, al solito miope in certe situazioni: si sarebbe trattato di ammettere che gli aerei e i droni che bersagliano i baghadadisti decollano dalle basi americane in Sicilia, e guai dirlo davanti a sovranisti e pacifisti, che poi c’è subito il rischio di essere additati come sudditi di Washington, anche se si tratta di operazioni anti-terrorismo che hanno un enorme interesse nazionale per l’Italia, ndr).

Con un problema: come il caso di Sirte ha dimostrato, senza un forte alleato sul terreno – leggasi: governo unito – è impossibile sconfiggere eventuali exploit dell’Is. Ci prova, come al solito, Emmanuel Macron, che sfrutta la situazione per giocare le proprie carte: Parigi ha proposto un tavolo a quattro per rinnovare il vertice del 25 luglio scorso tra Haftar e Serraj, due tra gli invitati all’eventuale summit; gli altri saranno il presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk Agila Saleh e il neo-eletto Khalid Al Mishri, presidente dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, la camera alta libica (semplificando, ndr).

Ma il vertice, che dovrebbe servire per mettere insieme tutte le anime del paese e trovare una soluzione comune – per l’ennesima volta – nasce già monco: al Mishri è un rappresentante della Fratellanza musulmana, ed egiziani ed emiratini che sostengono Haftar non lo vogliono vedere nemmeno morto. Nei loro paesi è stata dichiarata guerra ai Fratelli, per loro il negoziato è un non-starter con lui presente. Ma mandarci un vice, d’altronde, farebbe perdere autorevolezza al neo-eletto e soprattutto contatto con la componente islamista della comunità libica.

Altra questione: al Mishri non è troppo amato nemmeno a Misurata, perché ha spodestato Abdulrahman Swahili, misuratino doc. Ora la città-stato più potente della Libia resta rappresentata tra le più alte istituzioni solo da Ahmed Maitig, che ha ottime entrature in Italia ed è il vice di Serraj, ma non è stato invitato al vertice da Macron.

Altri due punti: primo, Parigi sta organizzando il meeting diplomatico lateralmente all’azione di Ghassan Salamé, inviato speciale delle Nazioni Unite, e questo rischia di delegittimare il percorso onusiano. Secondo: racconta Vincenzo Nigro su Repubblica che per organizzare il vertice i francesi sono andati a informare gli italiani, dicendo che americani e inglesi erano d’accordo: “Poi hanno fatto lo stesso con gli americani. E poi ancora con gli inglesi. Quando però i 3 si sono parlati si sono accorti che era un gioco davvero molto miserabile”.

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