In queste settimane segnate dalla visione del vuoto affacciandosi sul desolato panorama politico, si sono riaccese (almeno così sembra), probabilmente per disperazione, antiche ipotesi istituzionali in grado di scacciare le ombre che giorno dopo giorno si addensano sul destino della democrazia italiana. I riferimenti a una radicale (e non contorta) Grande Riforma si sono fatti espliciti. Le proposte di “doppio turno” elettorale, di collegio o di coalizione ha poca importanza, e l’elezione diretta del Capo dello Stato hanno ripreso quota e proprio mentre non c’è quel minimo di coesione tra le forze politiche che autorizzerebbe un lavoro riformatore in grado di ridefinire i fondamenti costituzionali.
Dunque, se ne parla come espediente per coprire l’incapacità di uscire dalle secche nelle quali ci troviamo? È probabile. Ma non è inutile, tuttavia, che la discussione sia arrivata a tanto, a seguito della presa d’atto dell’impotenza conclamata a formare un governo dopo l’esito tanto contraddittorio delle elezioni del 4 marzo scorso. E nel parlare di semi-presidenzialismo e di maggioritario “alla francese”, ho visto sfilare una legione di “ombre” che da tempo immemorabile hanno posto il problema per salvare la democrazia rappresentativa coniugandola con un governo dotato di autentici poteri decisionali e legittimato dalla volontà del popolo. Queste ombre, a dire la verità, appaiono e scompaiono a seconda dei momenti e la strumentalizzazione delle idee che hanno sostenuto è a dir poco ignobile, mentre sarebbe davvero il caso di fermarsi e fare il punto sulla situazione realizzando una volta per tutte che al cambio di sistema non v’è alternativa.
Quando si faranno i conti con la crisi della Repubblica s’incontreranno protagonisti della politica e della cultura istituzionale – le “ombre” , appunto – che per tempo avevano messo in guardia dalle derive demagogiche che ne hanno segnato il destino. E si dovrà loro rendere merito per aver saputo guardare in faccia alla realtà fino a rimetterci la reputazione. Come realisti sono stati infatti riguardati alla stregua di “profeti di sventura” e, dunque, hanno pagato con l’emarginazione il loro atteggiamento di avversione ai riti della partitocrazia e la denuncia dei vizi contenuti nella Costituzione. Ma a volte ritornano, sia pure con decenni di ritardo, a ricordarci che siamo in ritardo non solo nei confronti di altri Paesi, ma anche rispetto alle nostre stesse aspettative di sviluppo.
Uno dei più lucidi assertori del superamento della Prima Repubblica è stato certamente Randolfo Pacciardi (1899-1991), uomo politico tra i più lungimiranti, impegnato sempre sul fronte della libertà, repubblicano mazziniano, combattente in Spagna nel fronte antifranchista, esponente di primo piano della rinascita italiana, animatore del Pri nel quale fu in contrapposizione con Ugo La Malfa, padre-padrone a lungo di quel partito che pure era un punto di riferimento gremito di uomini di indubbie qualità intellettuali e morali, critico nei confronti del nascente centrosinistra agli inizi degli anni Sessanta fu per questo “costretto” a passare all’opposizione fino ad essere espulso per le sue posizioni eterodosse che possono essere riassunte nella formula della “Nuova Repubblica” alla quale intendeva dare vita e alla quale pensava fin da quando era ministro della Difesa nei governi centristi del dopoguerra, probabilmente il miglior ministro della Difesa che l’Italia abbia avuto.
Di Pacciardi tutto si può dire, come si evince dal bellissimo libro di Paolo Palma, pubblicato qualche anno fa e che andrebbe riletto alla luce degli avvenimenti recenti, Randolfo Pacciardi. Profilo politico dell’ultimo mazziniano (Rubbettino editore), ma certamente gli va riconosciuto, anche da parte dei detrattori, il coraggio delle idee manifestato anche quando non gli conveniva. E la sua “marginalità” nel dibattito sulle riforme si spiega, infatti, come osserva Palma, “nell’ostracismo politico prima che storiografico di cui Pacciardi fu vittima per la scelta centrista e atlantica del ’47 cui seguì un sempre più accentuato anticomunismo, fino ai suoi equivoci rapporti con l’estrema destra negli anni ’60 e ’70, al tempo della battaglia presidenzialista di Nuova Repubblica”. Palma si riferisce al rapporto privilegiato che il vecchio antifascista stabilì con il suo collaboratore più brillante, colto e intelligente, il giovane Giano Accame, proveniente dalle file del neo-fascismo, ma già in grado di sottrarsi alla “mummificazione” ed alla irrilevanza politico-culturale aprendosi ai nuovi orizzonti sui quali si stagliava una concezione della democrazia partecipativa e decidente simile a quella nutrita da Pacciardi.
Il feeling tra i due fu particolarmente proficuo al punto che il vecchio repubblicano gli affidò la sua rivista Folla, poi diventata, per motivi economici e dunque in formato più ridotto, Nuova Repubblica dalla quale Accame, con l’apporto decisivo di giovani come Mauro Mita (il più gollista del gruppo), ingaggiò la battaglia della sua vita, quella per la trasformazione della Repubblica dei partiti in Repubblica presidenziale.
L’accelerazione venne data dall’ingresso nell’area della maggioranza e di governo poi, nel 1962, dal Psi che Pacciardi vedeva come un’apertura all’inserimento progressivo del Pci nelle istituzioni e lui, per le scelte atlantiche che aveva fatto, non poteva consentirlo, giudicando “morbido”, se non arrendevole l’atteggiamento del suo Pri dal quale venne cacciato. Fondò, quindi, l’Unione democratica per la Nuova Repubblica che debuttò il 10 maggio 1964 con una imponente manifestazione all’Adriano di Roma nella quale lanciò il movimento per la Seconda Repubblica, sintetizzandolo nello slogan “Dobbiamo arrivare al cuore della folla per rifare lo Stato e disfare le sette”. Chiara l’allusione contro la partitocrazia ispiratagli da un grande costituzionalista, anch’egli meritevole di essere ripreso e studiato: Giuseppe Maranini, al quale va riconosciuto il merito di aver saputo valutare l’impatto negativo della “Costituzione del partiti” e di conseguenza l’aver elaborato per primo una critica puntuale e fondata all’ingerenza dei partiti nella Pubblica amministrazione e alla loro invadenza nella vita associata, cui era da ricondurre l’involuzione partitocratica , concetto da lui stesso inventato e utilizzato nei suoi articoli pubblicati sul Corriere della sera e poi raccolti nel volume “Il tiranno senza volto”, summa di una teorica innovativa delle istituzioni e di una serrata critica al sistema che si stava affermando.
Pacciardi colse molto da Maranini e lo seguì sulla strada di una scelta tutta italiana nell’immaginare il presidenzialismo che doveva essere il cuore della democrazia diretta a cui il suo movimento intendeva conformarsi. In lui prevaleva l’ispirazione gollista, ma il modello che prediligeva era quello americano. Si discuterà a lungo di come si sarebbe configurata la “Repubblica pacciardiana” se avesse avuto successo il tentativo che venne oscurato dalle accuse di golpismo e sovversivismo, fino a ridurre al silenzio o quasi il suo promotore di quella che gli spiriti liberi intravedevano come il superamento delle insufficienze istituzionali che tanti disastri avrebbero provocato, come purtroppo abbiamo sperimentato.
Pacciardi, in un illuminante libretto che bisognerebbe ripubblicare, La repubblica presidenziale spiegata al popolo (1972), sosteneva la necessità di “organizzare una Repubblica che non abbia più le crisi perpetue, che abbia un governo duraturo e valido, che concili l’autorità con la libertà. Ciò non si può ottenere nel nostro Paese, che ridando prestigio e autorità al Capo dello Stato. Il Presidente della Repubblica deve essere eletto dal popolo. Deve costituire un governo di cui è l’esponente e il responsabile, al di fuori del Parlamento, fra gli uomini più illustri e competenti”. Parole più chiare non potrebbero attagliarsi alla situazione presente per descrivere le esigenze della modernizzazione delle istituzioni.
Non senza difficoltà, Pacciardi nell’ottobre 1980 rientrò nel Pri. Giovanni Spadolini gli riconsegnò la tessera. Ma continuò ad essere ignorato. L’estremo saluto che la classe politica gli tributò dieci anni dopo, non lo avrebbe gradito. Accame, che gli restò sempre al fianco, notò che ebbe almeno la consolazione di “quel funerale repubblicano a cui aspirava. Fu in piazza Montecitorio una grande cerimonia ipocrita: lo celebrò nell’aprile 1991 la nomenclatura d’un sistema che l’aveva temuto, messo al bando, e solo da morto osava riappropriarsene senza presagire d’essere moribonda anch’essa. L’anno dopo scoppiò Tangentopoli”.
A ventisette anni dalla scomparsa cosa resta della lezione e delle intuizioni politico-istituzionali di Randolfo Pacciardi non è difficile capirlo. Il tempo della Nuova Repubblica si sta avvicinando.