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Quanto ci costa il cambiamento climatico? Le opinioni di Pistelli, Profumo e Saccomanni

“Tra 30 anni dovremmo fornire energia a nove miliardi di persone, non basterà garantire loro l’accesso all’energia, bisognerà farlo in modo sostenibile e sicuro, non sono dal punto di vista ambientale, ma anche geopolitico”. Suona come un monito quello lanciato da Lapo Pistelli, Direttore delle Relazioni internazionali di Eni, all’evento organizzato dallo Iai in collaborazione con il Belfar Center dell’Harvard Kennedy School, “The geopolitics of climate, a transatlantic dialogue”. Ad arricchire ulteriormente il panel istituzionale, a fianco di Pistelli c’erano anche il presidente di Unicredit, l’ex ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, ora presidente del Cda di Unicredit e il presidente di Compagnia si S. Paolo, Francesco Profumo.

Un tema, quello del cambiamento climatico, divenuto scottante e politicamente controverso dopo che l’attuale amministrazione americana ha deciso per il ritiro di Washington dall’Accordo di Parigi sul clima, lasciando all’Ue, la cui Commissione ha da poco presentato una nuova strategia sul clima, e alla Cina, campione incontrastato per gli investimenti nelle rinnovabili, il compito di farsi alfieri della lotta contro il cambiamento climatico.

La situazione però, non è delle più rosee. “Abbiamo già consumato il 65% del nostro carbon budget (la quota approssimata di quanta C02 può essere immessa nell’atmosfera prima di innescare un cambiamento climatico che oltrepassi la soglia critica dei 2°C) – avverte Pistelli – una volta arrivati al 100% i cambiamenti per l’ambiente saranno irreversibili”. La soluzione non potrà essere, almeno nel medio termine, quella di affidarsi esclusivamente alle rinnovabili. “Vedo molti parlare delle aziende dell’Oil&Gas come di dinosauri che lottano per non essere estinti, mentre i mammiferi, le rinnovabili, si prendono tutta la scena. Ebbene, nei prossimi 30 anni i combustibili fossili rimarranno una fetta molto grande della torta”. Secondo Pistelli, non bisogna solo guardare al tema della produzione di energia, dove è in atto quello che chiama un “big bang sociale”, ma anche a “trasporti, infrastrutture e prodotti petrolchimici”, dove i combustibili fossili sono ancora indispensabili.

Difficile dargli torto, soprattutto se si guarda al recente boom degli investimenti nella petrolchimica. Neanche le auto elettriche potranno essere la panacea se è vero, come ricorda Pistelli, che “le stime più ottimistiche ci dicono che dei 1000 milioni di barili di petrolio venduti ogni giorno solo 5 subiranno l’impatto del passaggio dei trasporti leggeri all’elettrico. Attenzione a farsi ingannare dalla narrativa dominante, se è vero che la Norvegia procede spedita verso la completa elettrificazione del suo parco auto, bisogna anche dire che, in termini di volume, “l’impatto ambientale sarà pari a quello dei trasporti di un solo quartiere di Calcutta”. Per non parlare dei trasporti pesanti, su cui l’elettricità non è in grado di incidere e che richiedono combustibili tradizionali.

Tuttavia, non mancano gli sforzi dell’Oil&Gas per rendere il proprio business più sostenibile, soprattutto nell’industria eruopea. “Il nostro sforzo è diretto a contenere le nostre emissioni dirette di C02 e di gas a effetto serra. In pochi anni l’obiettivo è quello di portare a zero il gas flaring –i gas connessi all’estrazione del greggio e bruciati in torcia.  Stiamo anche lavorando sul nostro portfolio, passando dal petrolio al gas, che può essere il combustibile transitorio, verso la conversione alle rinnovabili”.

C’è anche uno sforzo importante in termini di digitalizzazione ed economia circolare. Eni sta investendo molto in R&D, perché saranno determinanti gli investimenti in nuove tecnologie per far rendere appieno il business delle rinnovabili.

Un altro grande tema è quello del risparmio energetico, “che coinvolge sia il comportamento dei cittadini, sia le policy dei governi”, che hanno un ruolo importante da giocare nella transizione, agendo su sussidi, prezzi e “carbon pricing”.

Anche Profumo ha voluto sottolineare l’importanza del contributo che la politica può dare per il raggiungimento degli obiettivi di Parigi, soprattutto in sede Europea. “Negli ultimi anni – ha riconosciuto – i temi dell’inquinamento e del cambiamento climatico sono stati al centro dell’attenzione della Commissione”. Non poteva essere di certo sfuggito, a un’istituzione sempre così attenta all’equilibrio dei conti, l’ingente costo economico che è associato alle emissioni di gas serra. Come ricordato da Profumo, si stima che il costo di ogni tonnellata di CO2 emessa sia pari a 220 dollari, ripartito in termini di mancata produzione agricola, costi di riparazione dei danni ambientali e costi per la sanità pubblica. Per l’Europa, secondo uno studio recente, i costi del cambiamento climatico dagli anni ‘80 a oggi si aggirano sui 450 miliardi.

Dal bilancio europeo, secondo il presidente della Compagnia San Paolo, si devono trovare le risorse per raggiungere gli obiettivi di Parigi. Tuttavia, “prima la crisi economica, poi quella migratoria e infine la Brexit hanno impedito una riflessione più attenta sul tema”. L’attuale dimensione del bilancio Ue, pari a circa l’1,2% del Pil europeo, “è troppo esigua per ipotizzare delle azioni efficaci”. Profumo ha ricordato l’esperienza del gruppo di alto livello guidato dal Prof. Mario Monti e istituito nel 2013 dalla Commissione con il compito di “riformare il bilancio rafforzando il sistema delle “risorse proprie”, quelle cioè raccolte direttamente da Bruxelles e non trasferite dal Tesoro degli Stati membri”. Una delle proposte più interessanti uscita dal gruppo di lavoro era quella della “carbon tax”, una tassa sui combustibili fossili che avrebbe permesso, a seconda del suo importo, di racimolare tra i 70 e i 100 miliardi annui. “Non abbastanza ma un buon punto di partenza”, ha commentato Profumo. Peccato che poi essa sia stata parecchio annacquata una volta finita nel documento finale della Commissione che parlava di risorse per 10 miliardi, “noccioline”.

Dove non arriva la politica, forse, possono arrivare le istituzioni finanziarie. Se non altro, negli ambienti finanziari internazionali, “la consapevolezza di quanto sia urgente intervenire è parecchio aumentata – ha spiegato Saccomanni – ci sono sviluppi interessanti riguardo la comprensione di cosa le istituzioni finanziarie possono fare per combattere il cambiamento climatico”. In quest’ottica, l’ex ministro giudica molto positivo che il G20 del 2015 abbia istituito una “Task force on climate-related financial disclosures”, con il compito didefinire una cornice di regole condivise per la disclosure del rischio climatico, in modo da stabilire dei criteri di trasparenza il più possibile uniformi.

Comunicazione e trasparenza sono importanti. Le aziende e le banche che vogliono investire devono avere chiare su sostenibilità e prodotti climate-friendly. Qualcosa si muove anche in sede europea, soprattutto grazie al gruppo di lavoro sulla finanza sostenibile creato dalla Commissione nel 2016, che ha proposto l’istituzione di un sistema di classificazione per chiarire meglio ai mercati ciò che si intende per “sostenibile” e precisare gli obblighi degli investitori per quanto riguarda il conseguimento di un sistema finanziario più sostenibile. Positiva – ha notato Saccomanni – è “l’emissione di green bondsda parte delle istituzioni finanziarie, per finanziare esclusivamente “progetti verdi”. Questi sviluppi, per quanto positivi, non devono ingannare. “Sono necessari ancora investimenti su larga scala per colmare il gap finanziario” ha avvertito l’ex ministro. È benvenuta la maggiore consapevolezza di investitori,asset manager e mercati sul tema della sostenibilità. Tuttavia, “manca ancora un sistema di controllo e tutto avviene su base volontaria”.

Insomma, il problema del cambiamento climatico è complesso. Per affrontarlo, politica, finanza e imprese devono tutte fare la loro parte.

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