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Nuove speranze per l’Etiopia. Con la guida del riformista Ahmed

Sembra proprio che l’ Etiopia, dopo la buia stagione del governo Desalegn – rallentamento dell’economia, acutizzarsi delle tensioni etniche, repressione poliziesca delle opposizioni – si stia avviando verso una nuova stagione, costellata di speranze e di voglia di riconquista dei valori democratici a lungo oscurati.

Il neo premier, succeduto da appena due mesi all’autoritario Hailemariam Desalegn, è un quarantaduenne informatico, studi tra Londra e Pretoria, riformista convinto e colto. Abiyi Ahmed presenta due importanti elementi di discontinuità con il passato. È musulmano (ma lontano anni luce dal fondamentalismo) in un Paese a maggioranza cristiana – ortodossi, copti, cattolici, protestanti – ed è soprattutto un “oromo”, l’ etnia che – pur maggioritaria, 43 per cento dei cento milioni di etiopi – è sempre stata inesorabilmente e iniquamente penalizzata – e perseguitata – dai governi precedenti, tutti di stretta emanazione “tigrina”, minoranza potente – alleata con gli “ahmara” – che ha sempre goduto di un peso sproporzionato nella gestione del potere, mettendo a frutto il ruolo determinante avuto nella vittoriosa rivolta che depose il famigerato “negus rosso”, il colonnello Menghistu, marxista-maoista e dittatore spietato, padrone assoluto della nazione tra il ’77 e il ’91.

Molte speranze sono sbocciate dal per nulla scontato cambio della guardia, maturato all’interno del solito partito egemone, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf). Speranze, ma anche palpabili diffidenze. Di parte del composito universo cristiano, di frange dell’esercito e degli occhiuti servizi segreti (di ispirazione e stampo sovietici), abituati a tenere il Paese stretto in una morsa. Ma Ahmed sta azzeccando, una dopo l’ altra, le mosse giuste, quasi fosse un leader navigato, ben altro che un timido e incerto esordiente.

Primo atto, chiaro segno di pacificazione interna, la cessazione – con due mesi di anticipo rispetto alla scadenza fissata – dello stato d’ emergenza, in vigore dai primi di febbraio, dai giorni tumultuosi delle dimissioni di Desalegn, indebolito dalle arrembanti proteste di piazza. Secondo atto: il ramoscello d’ ulivo porto con convinzione all’Eritrea dopo una guerra fratricida costata 70mila morti. Terzo atto, un segnale di svolta nella consolidata economia socialista dell’ Etiopia, l’ apertura di alcune rilevanti aziende statali agli investimenti e all’ingresso dei privati. Un processo, appena avviato, di graduale liberalizzazione, che avrà bisogno di tempo e incontrerà ostacoli e resistenze (già valutate perché pienamente attese). Ma vale la pena soffermarsi sul “punto 2” che abbiamo segnalato: gli ardui rapporti con Asmara, la “piccola Roma africana”.

L’ accordo di pace con la bellicosa Eritrea dell’autocrate Isaias Afewerki, che ha trasformato la sua terra in una caserma, era stato (sulla carta) raggiunto nel 2000, dopo oltre due anni di crudele conflitto sui confini, in particolare nel conteso “triangolo di Badme”, zona desertica e priva di risorse, eppure motivo principale dell’ assurda disfida. Lettera morta, si è rivelato quel trattato. Il crepitio delle armi ha sinistramente continuato ad echeggiare, anche se sporadicamente. Attacchi improvvisi, e risposte. Una guerriglia infinita, che ha minato nel profondo le relazioni tra le due nazioni tanto simili (entrambe presenti nella storia del colonialismo italiano in Africa) e impedito il ritorno al tavolo del negoziato in cerca di un’autentica intesa. Merito del premier di Addis Abbeba aver rilanciato con forza, tra la sorpresa degli osservatori internazionali, il percorso di pace. Con un appello nobile, apparso sincero. Apprezzato dagli etiopi, non si sa quanto penetrante e incisivo in Eritrea, dove il bavaglio ai ‘media’ è soffocante. Ma il dado sembra tratto.

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