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Piccolo promemoria (fondamentale) sull’Ilva per Luigi Di Maio

Bisogna dare atto al ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio – che ha ribadito ieri l’altro di voler assumere ogni decisione col “massimo della responsabilità” – di aver mantenuto l’impegno assunto pubblicamente nei giorni scorsi di ascoltare i soggetti interessati al futuro dell’Ilva e, dopo aver incontrato i commissari straordinari, di aver convocato per lunedì e martedì dell’entrante settimana il sindaco di Taranto Melucci, le associazioni ambientaliste locali, i rappresentanti di Arcelor Mittal, il presidente della Regione Puglia Emiliano e naturalmente i sindacati.

Ad oggi la situazione è nota: la cordata AmInvestco Italy, guidata da Arcelor Mittal il maggior produttore mondiale di acciaio, è risultata aggiudicataria della gara indetta per la vendita dei compendi aziendali dell’intera Ilva – offrendo 1,8 miliardi di euro e impegnandosi ad investire 3,5 miliardi sino al 2023 – e il 30 prossimo venturo potrebbe entrare in suo possesso, pur senza un accordo con le organizzazioni sindacali che, almeno sino ad oggi, non hanno accettato il programma occupazionale loro presentato – solo 10mila persone su quasi 14mila addetti – e neppure le proposte circa riassunzioni e reinquadramenti del personale che fosse riassunto nella nuova società chiamata a gestire gli impianti. L’Antitrust europeo ha dato il via libera all’operazione a condizione che Arcelor tagli capacità produttiva in determinati segmenti di prodotti, riduzione che il big player franco-indiano sarebbe disponibile a compiere dismettendo o riducendo potenzialità di produzione in sei suoi siti in Europa.

Il taglio occupazionale sarebbe rilevante per Taranto ove si prevederebbero 3.331 esuberi su 10.980 addetti, per i quali si ipotizzava in una vecchia proposta del precedente governo il reimpiego nei lavori di bonifica rimanendo a carico dell’amministrazione straordinaria o, in una versione aggiornata del ministro Calenda, l’assunzione di 1.500 unità in una newco costituita fra gestione commissariale dell’Ilva e Invitalia per eseguire lavori su commessa della nuova proprietà del siderurgico, mentre per gli altri addetti in esubero non si prevedeva alcun licenziamento a breve, e si offrivano ad essi 5 anni di cassa integrazione e incentivi per mobilità volontaria.

Nel frattempo, com’ è noto, l’attività produttiva nello stabilimento procede fra notevoli difficoltà, fra quelle di cassa della gestione commissariale – che paga con comprensibile lentezza anche le aziende dell’indotto – situazioni di precarietà manutentiva (con la pioggia che cade in alcuni capannoni) e incertezze nell’acquisizione di nuovi ordini in un mercato che pure continua a tirare, ma nel quale i compratori di coils e lamiere sono in attesa che si chiarisca il quadro complessivo e il futuro del Gruppo.

In questo scenario – in cui la capacità di ascolto del ministro e la sua volontà di procedere nella complessa vicenda con senso di responsabilità sono sicuramente da apprezzare, ma chiaramente non sufficienti a risolverla – circolano in ambienti imprenditoriali lombardi molto vicini al dossier attendibili indiscrezioni di fonte Movimento 5 stelle secondo le quali nello stabilimento di Taranto si starebbe valutando l’ipotesi di dismettere, sia pure in un lasso di tempo non immediato, l’area a caldo, costituita dagli altiforni 1, 2 e 4, con l’Afo5 tuttora fermo e da ammodernare, con le annesse cockerie, lasciando in attività i reparti di laminazione che verrebbero riforniti di bramme da altri siti del gruppo Arcelor – ammesso che quest’ultima accetti una simile prospettiva – o da altri fornitori.

Tale ipotesi – che è opportuno rilevarlo non sarebbe ancora, almeno per quanto è dato sapere, stata accolta dal ministro – implicherebbe un pesante riduzione di organico nel sito ionico corrispondente, secondi i calcoli più attendibili di fonte sindacale, a circa 5.000 unità, cui dovrebbe aggiungersi poi la flessione di occupati prevedibile nelle imprese dell’indotto e in altri segmenti di attività di subfornitura e con una significativa diminuzione di movimentazioni nello scalo portuale cittadino, non sopperibile in toto con l’arrivo delle bramme e la partenza dei prodotti finiti.

In tal modo però con lo spegnimento dell’area a caldo l’impatto ambientale si ridurrebbe in misura significativa e questo risultato consentirebbe al Movimento 5 Stelle e ai suoi rappresentanti di governo di venire incontro alle istanze degli ambientalisti locali.

Ora, a parte ogni pur doverosa considerazione sul fortissimo impatto occupazionale che tale dismissione avrebbe, e pertanto sulla necessità di ricollocare i lavoratori destinati a restare fuori dalla fabbrica, v’è da chiedersi subito se Arcelor possa avere interesse ad una simile soluzione. E la risposta – che ovviamente solo la società acquirente potrebbe dare e che per gli osservatori esterni si colloca solo nel campo delle ipotesi – è che ad AM Investco potrebbe anche andar bene, dal momento che: 1) comunque avrebbe assunto il controllo di un suo temibile concorrente quale è lo stabilimento di Taranto : 2) che potrebbe rifornirlo di bramme in partenza da un suo sito come quello di Dunkerque, ove è in esercizio un’area a caldo e che il governo francese teme di veder declassato a vantaggio di Taranto, se questo invece conservasse integra la sua area a caldo.

Un’altra domanda che sarebbe giusto porsi a questo punto riguarderebbe i lavori in corso per la copertura dei parchi minerali portati innanzi dalla Cimolai da concludersi nel 2020: avrebbe senso proseguirli se il Siderurgico tarantino fosse destinato ad essere solo un centro di laminazione? Si rifletta inoltre sulla natura della grande fabbrica in riva allo Ionio che venne progettata e realizzata come uno stabilimento a ciclo integrale e a ciclo completo, ovvero in grado, partendo dal minerale, di produrre acciaio che nello stesso sito viene poi trasformato in coils, lamiere e tubi: pertanto anche la sua economicità di gestione impone produzione su grandi volumi e trasformazioni a valle, naturalmente nel pieno rispetto delle norme più avanzate in materia di tutela ambientale e della salute dei lavoratori che vi sono impiegati e dei cittadini del capoluogo.

Ma vi sarebbe anche un’altra ipotesi che si starebbe coltivando in settori dello stesso Movimento 5 Stelle e riguarderebbe la possibilità di installare nell’impianto ionico uno o più forni elettrici, anche se in tal caso resterebbe da definire se affiancati ad almeno due degli attuali altiforni – magari al 4 e al 5, dismettendo solo l’1 e il 2, quelli cosiddetti di Taranto 1, ovvero la fase di avvio dell’area a caldo dell’acciaieria nell’autunno del 1964 – o se invece del tutto sostituitivi della presenza dei quattro altiforni.

Anche questa ipotesi dovrebbe essere valutata con grande rigore tecnico alla luce di diversi fattori. In primo luogo di costi e di tempi di realizzo dei nuovi impianti. E poi Arcelor accetterebbe questa proposta se le fosse formalmente avanzata ? E quanto tempo poi sarebbe necessario per ordinare, costruire, installare ed avviare in produzione i nuovi forni elettrici? E quanti ne verrebbero montati? E nel frattempo quanto dovrebbe produrre lo stabilimento di Taranto che pure sino al 2023 – anno di ultimazione del piano Aia – non potrebbe colare più di 6 milioni di tonnellate, salvo poi lavorare oltre 2 milioni di bramme?

Ma, a parte le incertezze e le molte domande che anche questa seconda ipotesi solleva e la differenza qualitativa fra acciaio d’altoforno e acciaio da forno elettrico segnalata dagli addetti ai lavori, v’è da considerare un altro aspetto nient’affatto trascurabile che potrebbe inficiarne la facile praticabilità. E tale aspetto rimanda alla necessità che i forni elettrici hanno bisogno per la loro carica di rottame di ferro che oggi scarseggia sul mercato interno e su quelli esteri ove ha raggiunto prezzi che gli esperti considerano quasi proibitivi. Non sarebbe facile pertanto reperire materia prima per impianti di cui al momento non si conosce il numero e la capacità e che comunque richiederebbero un minor numero di lavoratori rispetto all’attuale configurazione dell’area a caldo.

Anche in questa seconda ipotesi, comunque, ci si dovrebbe chiedere cosa dovrebbero attendersi in termini di volumi di commesse le aziende dell’indotto, e come e dove dovrebbero essere ricollocati gli addetti che risultassero in esubero anche nella nuova organizzazione degli impianti e del lavoro.

Ma altre domande si affollano nella mente di coloro che stanno valutando questa seconda ipotesi circolante anch’essa, come sottolineato in precedenza, con insistenza negli ambienti del Movimento 5 Stelle. Arcelor – di fronte a proposte che fossero molto diverse da quanto contemplato nel bando di gara per l’aggiudicazione del Gruppo – resterebbe in partita per tutto il tempo necessario alla definizione di un nuovo assetto impiantistico dello stabilimento di Taranto ? E se ne accollerebbe i costi ? E se invece a questo punto manifestasse disinteresse, ritirandosi dall’acquisizione chi gestirebbe nel frattempo il Gruppo ? Sempre i Commissari straordinari ? E con quali risorse e da chi conferibili ?

Si rifarebbe poi un altro bando chiedendo a chi vi partecipasse di accettare clausole vincolanti sull’introduzione di nuove tecnologie e processi di produzione ?

E sin quando potrebbe ‘reggere’ la situazione sociale a Taranto e nel suo hinterland in attesa che si definiscano i nuovi processi produttivi e si creino nuove prospettive di lavoro per gli esuberi che comunque sono destinati ad emergere da qualunque soluzione si adotti, ovvero dalla vendita del Gruppo così com’è ora, o da un rifacimento/ristrutturazione dell’impianto ionico ? Ed inoltre resisterebbe ancora a lungo sul mercato uno stabilimento impegnato in una difficile e prolungata transizione impiantistica? E il porto non rischierebbe una drammatica penalizzazione delle sue movimentazioni ?

Ora, quanto abbiamo appena commentato non sembrerebbe – è bene ribadirlo – ancora una decisione assunta dal Ministro Di Maio, quanto piuttosto un’elaborazione di settori autorevoli del Movimento Cinque Stelle che ritengono (peraltro legittimamente) di dover avere voce in capitolo in una situazione di grande complessità economica, sociale, tecnica e finanziaria. Ma, a loro volta, gli esponenti della Lega, se il Mise arrivasse a sposare e a proporre a tutte le parti in causa una delle due ipotesi, quale posizione assumerebbero dal momento che molte Pmi lombardo-venete utilizzatrici dell’acciaio tarantino sarebbero le prime ad essere danneggiate da una riduzione delle sue quantità sul mercato ?

In conclusione lo scrivente ritiene che sia giunto il momento di far sentire ancora una volta (e con maggior forza) la voce delle Organizzazioni sindacali, unite in sinergia a quelle di Confindustria Taranto, Federacciai, Confindustria nazionale, Comune, Provincia, Regione, Prefettura, Camera di Commercio, Autorità di sistema portuale, Parlamentari, Banche, Università e Politecnico, mondo della ricerca, Arcivescovado e cittadinanza, in un fronte compatto, autorevole, unitario e capace di farsi ascoltare senza demagogia, ma con proposte per lo sviluppo, il lavoro e la tutela ambientale di alto profilo tecnico, definite ed avanzate con la forza di un grande ed autorevole movimento collettivo.

Il popolo produttore di Taranto già in altre fasi della sua storia nel secondo dopoguerra seppe esprimersi unitariamente e con autorevolezza sui temi del rilancio e della crescita della città, come potrebbe e dovrebbe fare oggi: alla fine degli anni Cinquanta, nel 1975-1977, e nella seconda metà degli anni Ottanta. E sempre, in quei tre grandi momenti della sua storia economica, legati o all’arrivo del Siderurgico o a sue ristrutturazioni, seppe farsi ascoltare dai Governi dell’epoca.


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