Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Italia e Usa, come cambia la relazione con Trump e il governo Conte

Di Federiga Bindi
Conte

Alla sua prima uscita internazionale, il neo presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha orgogliosamente affermato di aver ricevuto un invito alla Casa Bianca. Donald Trump si sarebbe congratulato per il nuovo governo: del resto, Matteo Salvini era stato tra i pochissimi leader europei ad averne sostenuto l’elezione contro Hillary Clinton. Possiamo dunque ipotizzare un rapporto privilegiato con gli Usa di Trump per il governo Conte? Ma conviene davvero? E quali implicazioni avrebbe – nel bene e nel male – a livello europeo?

Per capire meglio, dobbiamo prima fare un salto nel passato. Nel dopoguerra, Alcide De Gasperi e Carlo Sforza riuscirono, nonostante l’opposizione domestica – sinistra risolutamente contraria sia alla CECA che all’Allenanza Atlantica, la Dc dossettiana contraria alla CECA ed in favore alla cooperazione transatlantica, la sinistra Dc che chiedeva equidistanza tra Usa e Urss – a far entrare l’Italia in un network di alleanze che le diedero un posto alla tavola internazionale. De Gasperi manovrò abilmente intersecando i vari trattati ed alleanze (CECA, Alleanza Atlantica, Consiglio d’Europa, Trattato di Amicizia con Mosca) e riuscendo a riposizionare l’Italia nel mondo occidentale, ma con una relazione privilegiata con Mosca. Questa posizione di sostegno all’integrazione europea, fede transatlantica e vicinanza con Mosca sono rimaste costanti della politica estera fino ai giorni nostri.

Durante la guerra fredda, l’Italia ha poi goduto di una rendita da posizione geopolitica – grazie alla vicinanza al blocco comunista – che le ha permesso di far parte dei “grandi” del pianeta essendo, in effetti, una media potenza. Ciononostante, Roma ha continuato ad essere percepita come inaffidabile, il paese del voltafaccia nelle due guerre mondiali. Similarmente, nonostante sia uno dei maggiori contributori alle Nazioni Unite e nelle missioni di peace-keeping – nel cui settore è unanimemente riconosciuta come un leader internazionale (si pensi ad esempio al ruolo dei nostri Carabinieri in Libano, Afghanistan, Iraq o nei Balcani) – l’Italia non viene considerata tra i maggiori providers di sicurezza militare all’interno dell’Alleanza Atlantica.

Con la caduta del Muro di Berlino, pochi capirono di come il peso di Roma si sarebbe velocemente ridotto. Il disperato tentativo della Presidenza Italiana del 2009 di tenere in vita il G8, contro il nascente G20 sostenuto da Obama, si spiega con la necessità di mantenere la sedia nell’ultimo tavolo ristretto. Similmente, oggi, Roma ha tutto l’interesse a sostenere il reintegro di Mosca, pena la fine del G7 stesso a favore di un G3 (USA-Russia-Cina) già ventilato da Trump – con buona pace dell’Ue, che oggi occupa oltre mezza tavola al G7. Sotto molti versi, il governo giallo-verde ricorda il primo governo Berlusconi, di cui per altro la Lega faceva parte. Isolato (quando non osteggiato) da partner e media internazionali, fu velocemente fatto fuori dagli eventi e dall’inesperienza.

Come il primo governo Berlusconi, a livello europeo Lega e M5S fanno parte di gruppi politici europei marginali: il M5S di Europa della Libertà e della Democrazia (EFDD) – dove è alleato con lo UKIP di Neil Farage. Il tentativo del 2017 di entrare a far parte di ALDE, il gruppo liberale, è fallito. Similmente, la Lega fa parte del Gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà, in compagnia del Fronte Nazionale ed altri partiti dell’estrema destra europea. Sono collocazioni che andavano bene finché erano all’opposizione, ma – come forze di governo – il governo è destinato a pagare questa marginalità, che si traduce in concreto nell’assenza nelle riunioni pre-Consiglio e pre-Consiglio Europeo in cui si prendono la maggior parte delle decisioni.

Non è caso che Silvio Berlusconi corse velocemente ai ripari assicurandosi che Forza Italia entrasse a far parte del Partito Popolare Europeo, e creando nel frattempo un rapporto di amicizia personale con George W. Bush. Una volta tornato al potere nel 2001, usò poi l’amicizia con il presidente americano come leveradge in Europa ed avere un ruolo nella politica estera mondiale. Usare la sponda americana per rafforzarsi domesticamente ed in Europa è del resto una strategia che è stata usata anche da altri – ad esempio da Matteo Renzi con Barack Obama – anche se non è che gli abbia portato troppo bene. Potranno M5S e Lega attuare una simile strategia?

A livello europeo, cambiare famiglia politica, implicherebbe accettare un maggiore grado di europeismo, una scelta che ben si sposa con le recenti dichiarazioni del ministro del Tesoro Giovanni Tria, ma meno con quelle del vice premier Salvini. Non sembra tuttavia esserci molta alternativa: l’Unione europea è assai più integrata oggi di quanto non fosse ai tempi del primo governo Berlusconi e, come ha spiegato il ministro del Tesoro Giovanni Tria al Corriere, l’ipotesi di un’uscita italiana dall’euro è assolutamente esclusa.

Per quanto riguarda invece le relazioni con Washington, Donald Trump non è Barack Obama, e neanche George W. Bush, ed i rischi di un rapporto privilegiato superano abbondatemente i vantaggi.

Intendiamoci, dal punto di vista sostanziale, Trump non è che si discosti troppo dai predecessori. Come per i suoi predecessori, quello che conta è preservare il ruolo dominante degli Usa nel mondo. La caduta del Muro di Berlino, percepita e definita negli Usa come la vittoria contro il Comunismo, ha creato la convinzione che Washington abbia naturalmente acquisito un diritto-dovere giocare a fare il superpoliziotto mondiale. Da questo punto non ci sono differenze tra repubblicani e democratici (con l’eccezione di Bernie Sanders), o tra élite e popolo. La frase più applaudita del discorso di insediamento di Obama nel 2009 fu quando affermò che avrebbe riaffermato il ruolo di leader degli Usa nel mondo. Un concetto diverso nella formulazione semantica, ma non certo nella nella sostanza, dal “Make America Great Again” di Donald Trump.

Il variegato mondo Washingtoniano – ammistrazione, think tanks, media – tendono quindi a giudicare l’effettività dei leader stranieri e delle loro politiche sul grado di coincidenza con l’interesse e le politiche Usa, una coincidenza che è il corollario primario della politica estera americana. Ha fatto scandalo l’intervista dell’Ambasciatore Usa in Germania Richard Grenell in cui ha detto che intende sostenere i conservatori in Europa. Ma quanto si discosta, nella sostanza, dalla famosa telefonata tra l’Assistant Secretary of State Victoria Nuland all’Ambasciatore Usa in Ucraina Geoffrey Pyatt sulla composizione del nuovo governo di Kiev? Insomma il principio rimane quello di “He is a bastard, but he is our bastard”. Tra i leader italiani più apprezzati dall’establishment liberal americano vi è il Presidente Emerito Giorgio Napolitano, sostenitore – tra le altre cose – della disastrosa guerra di Libia, nonostante che la prima operazione della Cia per influenzare un’elezione estera fu quella del 1948 in Italia per evitare la vittoria delle sinistre. Il fine giustifica i mezzi, e le amicizie del momento.

Quello che cambia con Trump è dunque lo stile – suo e dei sui collaboratori – e l’erraticità del comportamento quotidiano. Gli americani sono la quintessenza del perbenismo: i “dear e gli “sweetheart” si sprecano, ed una frase deve contenere almeno due “prego”, due “grazie” e tre “gentilmente” per essere accettabile. Negli anni di Barack Obama, la barra del politicamente corretto si è ulteriormente alzata. Con il suo crudo e ristretto vocabolario, Trump rappresenta il contrario del perbenismo e del politically correct della classe media liberal che, proprio per questo, ne è totalmente spiazzata. Il perbenismo americano implica che le cose si fanno, ma non si dicono: Trump fa l’esatto contrario, le dice e (non sempre) le fa. Genio della comunicazione, ha capito che oggi quello che conta è l’immediato, la frase (il tweet) ad effetto, ad uso e consumo del suo elettorato. Che ci sia un effettivo seguito alle parole, non è particolarmente rilevante.

Il problema vero è che all’aggressività verbale si aggiunge un’accentramento senza precedenti di potere nelle mani del presidente. Trump ha volutamente evitato di riempire la maggior parte delle posizioni medio-apicali dell’amministrazione (ivi comprese molte ambasciate) per poter meglio accentrare a sè la conduzione delle politiche. Una definizione di sicurezza nazionale a maglie larghissime – come avrebbe detto Giovanni Sartori – che gli permette di bypassare il Senato e fare quello che vuole: persino i dazi contro il Canada sono stati formalmente giustificati come questione di sicurezza nazionale!

In questo contesto, il miglior amico di oggi, può essere il nemico di domani – e viceversa. È successo al premier canadese Justin Trudeau – passato da “caro amico” a “disonesto e debole”. Il presidente francese Emmanuel Macron, dopo aver ricevuto ed essere a sua volta ricevuto in pompa magna da Trump, è ripartito da Washington sicuro che Donald sarebbe rimasto nell’accordo sul’Iran e non avrebbe imposto dazi all’Europa… Difficile quindi per il primo Ministro italiano (o il suo vice) poter davvero contare sul sostegno e l’amicizia del Presidente Usa.

L’altro svantaggio di un eventuale “amicizia” con Trump sarebbe poi la reazione dei media e dei think tank mainstream di Washingon: una comunità che con l’attuale amministrazione non riesce più ad incidere sulle politiche, ma che ha ancora un’influenza rilevante su intellettuali, opinion-makers e media europei ed internazionali. Questa comunità è oggi ossessionata con Mosca. Hanno gioco facile, visto che anni di Hollywood hanno insegnato agli americani che i russi sono i cattivi. Chiunque sia simpatetico a Mosca è radioattivo. A Washington del resto non riescono a capire come il rapporto privilegiato con la Russia sia per l’Italia non solo politico, ma anche economico e storico, e c’è sempre stato un sospetto nei riguardi dei politici italiani considerati come troppo sbilanciati verso est.

Questa comunità sarebbe dunque prontissima ad impallinare un leader italiano reo di essere pro-Mosca e amico di Trump: sappiamo bene come certi articoli del New York Times, rilanciati da FT e dalla stampa estera possono creare allarmismo sui mercati internazionali e danneggiare l’Italia anche in Europa.

Gestire le relazioni transatlantiche sarà dunque un delicato gioco di equilibrismo, che andrà fatto senza cedere alla tentazione di proclami e con un sapiente uso di carota e bastone. Relazioni con Trump, dunque, ma al tempo stesso fare come gli altri governi esteri: investire sulla potente comunità di think tanks e media americani per sostenere la posizione l’Italia e delle sue politiche, a Washigton come in Europa.

×

Iscriviti alla newsletter