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Le tante verità mancanti del caso Moro e le complicità internazionali svelate da Calabrò

aldo moro

Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro sono innanzitutto una tragica e monumentale vicenda di intrecci internazionali, drammaticamente emblematica dei fragili equilibri del secondo dopoguerra. Maria Antonietta Calabrò ha scritto con Giuseppe Fioroni un libro solido e assai utile (Moro, il caso non è chiuso, Lindau), facendo leva sull’immensa mole di documenti che l’apposita commissione parlamentare ha trovato nella legislatura appena conclusa. Non si tratta solo di storia, ma di stringente attualità, poiché le dinamiche internazionali sono tutt’oggi lì da osservare e i nostri tempi sono decisamente figli di quelli. L’Italia agisce nel contesto che c’è, oggi come allora. Moro governava e faceva politica, ben consapevole dei limiti (e dei rischi dell’esercizio). Questo libro ha il pregio di mettere tutto in fila, con grande chiarezza ed assoluta onestà intellettuale.

L’intera vicenda Moro mostra una immensa attività internazionale attorno a quella storia. Come possiamo riassumere questo scenario?

In modo semplice, nel senso che i nuovi documenti desecretati a partire dal 2014, lavorati e studiati dalla Commissione Moro2, dimostrano che nel corso del sequestro (e poi anche negli anni successivi) si muovono per recuperare i documenti di Moro tutti i servizi segreti rilevanti ai fini della collocazione internazionale del nostro Paese. L’Italia è in Occidente e fa parte della Nato, però ha i suoi rapporti con l’est e con la Russia, così come li aveva al tempo con l’Unione Sovietica. Moro si è trovato in mezzo a uno scacchiere molto composito e non è riuscito a gestirne tutti gli aspetti. Questo ha creato probabilmente i presupposti del sequestro, attribuibile alle azioni di Br e Raf tedesche collegate alle frange più estreme del terrorismo palestinese e poi l’esito tragico del sequestro stesso.

Noi oggi possiamo dire quindi che le ragioni della morte di Aldo Moro vanno cercate più fuori che dentro l’Italia?

Si è creato un gioco di specchi per cui alla fine quelli che sembravano gli amici, cioè le frange estreme palestinesi con cui l’Italia stava trattando per la liberazione di Aldo Moro, hanno condotto alla morte del prigioniero. D’altra parte è agghiacciante considerare che il lodo Moro, cioè l’accordo fatto dai nostri servizi segreti con i palestinesi per mettere al riparo il Paese da attentati terroristici è servito a tutti tranne che ad Aldo Moro. Cioè a Aldo Moro che è stato rapito nonostante il lodo Moro ed è morto nonostante il lodo Moro.

Ha senso parlare di uno Stato nello Stato, o, per dirla all’inglese, di un Deep State?

Si che ha senso. Ve n’è traccia evidente nelle centinaia di documenti agli atti della Commissione Moro 2 che abbiamo esaminato nel libro. Cioè oltre allo Stato espressione delle elezioni, dei vari leader politici, dei rapporti tra i partiti, (penso al ruolo di Craxi durante i 55 giorni e poi naturalmente alla Dc e al Pci) ne esiste uno più profondo che gestisce anche la collocazione internazionale dell’Italia con i relativi accordi . Il tema forse più drammatico evidenziato nel libro è che il generale Dalla Chiesa scrive al ministro dell’Interno, già nel gennaio 1979, esprimendo tutto il suo allarme per il fatto che le Brigate Rosse a un certo punto iniziano a parlare di una struttura segreta della Nato, cioè Gladio. In effetti dal ministero della Difesa , durante il sequestro Moro, sono scomparsi documenti riguardanti i piani top secret della rete Nato Stay Behind in Europa , ed essi sono arrivati In mano alle Brigate Rosse e , con altissima probabilità ,furono ritrovati nel loro covo di via Fracchia a Genova dai carabinieri dal Generale Dalla Chiesa.

Veniamo al rapimento di Aldo Moro. Cosa non torna nella versione ufficiale di quella maledetta giornata?

Due elementi essenziali. Il primo. Dalla scena dell’agguato di via Fani scompaiono due terroristi della Raf. Questo ormai si può dire con certezza. Sono due persone a bordo di una moto tra cui una donna con lo chignon: ne parlano testimoni oculari mai ascoltati nelle istruttorie giudiziarie. Può sembrare pazzesco, poiché già allora si sapeva dei collegamenti tra le Br e Raf. Allora perché tanta cura nel non citare i terroristi tedeschi? Però nessuno parla di quei due, men che meno la versione ufficiale dei brigatisti consegnata nel 1990 a Cossiga. Il motivo è nel contesto internazionale del sequestro. Perché la Raf vuol dire Germania Est e vuol dire Stasi, cioè i servizi segreti gestiti da Markus Wolf. Non a caso le Br chiamano il sequestro “operazione Fritz”: un chiaro riferimento ad un contesto internazionale, altro che il ciuffo bianco nei capelli di Moro. Il secondo elemento è che le autovetture che si allontanano dalla scena di via Fani vengano ritrovate in via Licinio Calvo nell’arco di tre giorni. Cioè la 132 di Moro e le due 128 usate dai terroristi per fuggire da Via Fani vengono lasciate in quella via in sequenza, non nello stesso momento. Quindi c’è in zona un luogo “sicuro”che le ha custodite. Con altissima probabilità è il garage di via Massimi 91, forse anche la prigione di Aldo Moro, almeno per i primi dieci giorni. Ma forse anche per maggiore tempo . Lo stabile di via Massimi 91 aveva una proprietà molto particolare, cioè lo Ior, la banca vaticana.

E per quanto riguarda i 55 giorni di prigionia qual è l’elemento più importante che non torna?

Un uomo tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni in una striscia di stanza di un metro per tre (com’era la prigione del popolo “ufficiale” di via Montalcini 8 ) senza la possibilità di lavarsi , di muoversi, di avere uno spazio idoneo per scrivere tutto quello che ha scritto Moro. Un uomo ridotto a passare tutta la giornata steso su una brandina non presenta il tono muscolare di Aldo Moro evidenziato dall’autopsia. L’uomo che arriva sul tavolo dell’obitorio è un uomo che ha potuto muoversi, camminare, sedersi a un tavolo.
Un prigioniero detenuto così, soprattutto, non può avere la lucidità per interloquire indirettamente con il colonnello Giovannone come si dimostra nel libro, non può gestire la complessa trattativa che lo riguarda, dentro e fuori la Dc. Per questo la commissione Moro2 ha puntato il suo faro sul complesso di via Massimi 91, dove sull’attico della palazzina B era stato ricavato un vero e proprio mini appartamento. Un luogo su cui una fonte altamente qualificata della Guardia di Finanza aveva richiamato l’attenzione già dai primi giorni del sequestro. Io l’ho chiamato il checkpoint Charlie di Roma. Quell’edificio è la linea di confine di quegli anni tormentati.

Arriviamo all’esecuzione del presidente della Dc. Anche qui la versione ufficiale non regge.

I carabinieri hanno dimostrato che Moro non può essere stato ucciso nel garage di via Montalcini: quel garage è un box troppo piccolo per essere stato la scena del delitto. I primi colpi lo raggiungono quando lui è seduto probabilmente fuori della Renault Rossa e vede perfettamente chi gli sta sparando con la Scorpion. Poi, già ferito gravemente, Moro viene messo nel bagagliaio e nuovamente raggiunto da diversi colpi, l’ultimo dei quali è della pistola Walther calibro nove, cioè quella pistola che sarà recuperata dai carabinieri di Dalla Chiesa a Roma nel 1980 dopo che venne smantellato il covo di via Fracchia. Uno strano destino quello di quest’arma, che è sempre rimasta un po’ sullo sfondo del delitto (secondo i brigatisti non avrebbe mai sparlato perché si inceppo’) tanto che solo dal 2016 sappiamo dai riscontri del Ris dei carabinieri che è una delle due armi che ha ucciso Moro .

L’omicidio del generale Dalla Chiesa è secondo te collegato al caso Moro?

Questo hanno sostenuto diversi testimoni, come la signora Setti Carraro al processo di Palermo. Poi c’è l’assassinio di Carmine Pecorelli, che era molto informato sull’andamento del sequestro e soprattutto sul recupero delle carte. Già, perché è proprio Pecorelli che aiuta Dalla Chiesa a ritrovare i documenti di Aldo Moro nel carcere di Cuneo. Poi rimangono molti interrogativi sulla morte del generale Galvaligi ed anche su quella del falsario della Banda della Magliana Antonio Chichiarelli, che compie due grandi furti, alla banca Brink’s Securmark e a Villa Abalmelek. Il primo gli porta nelle tasche 35 miliardi delle vecchie lire, ma probabilmente anche molti documenti, facendo parte la banca della galassia Sindona. Il secondo nell’abitazione dell’ambasciatore russo, dove vengono trafugati quadri di un certo valore, ma che probabilmente non erano il primario oggetto di interesse. Pochi mesi dopo quei furti Chichiarelli muore.

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