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Così Israele guarda (e incoraggia) l’onda delle proteste in Iran

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L’ufficio di presidenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu, ieri ha diffuso un video in cui il capo del governo di Tel Aviv parla direttamente agli iraniani, con un pallone in mano, e li invita a essere forti e coraggiosi contro l’élite corrotta che li governa così come i calciatori della loro nazionale quando hanno impedito a Cristiano Ronaldo di segnare (l’ultima partita giocata dall’Iran ai Mondiali russi è stata contro il Portogallo, i Leoni si sono difesi bene, hanno pareggiato contro la squadra del super campione del Real Madrid, anche se sono stati lo stesso eliminati dalla competizione).

È il secondo di questo genere di spot usciti negli ultimi giorni: il primo parlava della crisi idrica, e spiegava che Israele è riuscito a risolvere problemi simili tramite investimenti in tecnologie all’avanguardia con cui potrebbe anche “risolvere il vostro problema, ma i vostri governanti non ci lasciano entrare per aiutarvi”.

Il messaggio di fondo è sempre lo stesso e suona più o meno così: pensate se invece di spendere soldi nella politica avventuristica con cui gli ayatollah e il governo di Teheran stanno scombussolando il Medio Oriente li spendessero per voi, per il proprio popolo, che bella nazione sareste.

La tempistica è cruciale. Da qualche giorno in Iran ci sono manifestazioni di piazza contro il governo e soprattutto contro il peso della teocrazia dei mullah. Le proteste hanno anche preso la via degli scontri in alcune città (attorno ai bazaar di Teheran per esempio) e sembrano seguire esattamente il solco di quello visto a inizio anno, quando una settantina di città del paese furono oggetto di manifestazioni anti-governative soppresse con la forza dalle autorità.

In piazza è scesa anche la fetta sociale più legata al settore commerciale, i cosiddetti “Bazarì”, quelli del Grand Bazaar di Teheran per esempio, che finora non si erano mossi lasciando lo spazio di protesta alla classe operaia (e alle elucubrazioni su una possibile eccitazione di questa da parte degli ambienti politici più reazionari contro il governo Rouhani considerato troppo moderato).

La composizione dei manifestanti è anche diversa da quella del 2009, l’Onda Verde era acculturata, quasi elitaria e filosofica, adesso in piazza ci sono gli ultimi della catena sociale e commercianti che preferiscono la stabilità per mandare avanti i propri interessi. Più paese reale e meno caminetti, per dirla col gergo dell’analisi politica italiana, più che altro è la classe media a muoversi in questo momento, quella il cui malcontento in passato ha segnato passaggi importanti per l’Iran.

Le condizioni economiche pessime in cui si trova la maggior parte dei cittadini iraniani sono il reale motivo delle proteste. E mentre la moneta cala (ha perso la metà del suo valore in metà anno, complice anche l’annuncio delle reintroduzione delle sanzioni americane) il governo e i chierici spingono i proxy iraniani nella regione in costose operazioni espansionistiche: l’impegno al fianco del regime in Siria (costo stimato: 6 miliardi di dollari finora), il finanziamento agli Hezbollah libanesi, l’assistenza ai ribelli yemeniti, il sostegno ai partiti sciiti in Iraq, l’appoggio ai gruppi armati palestinesi.

Netanyahu, che guida il governo più aggressivo contro queste velleità extraterritoriali iraniane, cavalca nei suoi video gli slogan popolari delle manifestazioni, “Andate via dalla Siria! Ora pensate a noi!” dice la gente in piazza contro i governanti; pensate se smettessero di spendere i soldi delle vostre tasse in Siria e Yemen, dice Netanyahu nel video sottotitolato in farsi, quanto potrebbero aiutarvi.

L’idea che scorre a Tel Aviv, incoraggiare le proteste per spingere il regime change (su cui però gli analisti internazionali sono piuttosto cauti), è condivisa a Washington. All’amministrazione Trump sembra piacere la possibilità di una caduta degli ayatollah, e si muovono su questo per vie secondarie: pochi giorni fa, il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha avvertito tutti di interrompere entro il 4 novembre il business petrolifero con l’Iran, pena finire sotto l’ascia delle sanzioni americane.

Il messaggio verrà recepito soprattutto a Bruxelles, dove l’Ue sta studiando un complicato sistema di protezione per mantenere attivo l’accordo sul nucleare (da cui gli Usa si sono tirati fuori), e tener vivo il business con Teheran, evitando di finire nelle liste nere statunitensi. Soprattutto però il messaggio potrebbe arrivare dritto nelle tasche degli iraniani, che sentiranno il peso del nuovo pseudo isolamento legato a quell’avventurismo subdolo e armato che il loro governo sta spingendo in Medio Oriente: qualcosa che potrebbe aumentare l’ira, e il coraggio, dei manifestanti.

Ma le rivolte in Iran sono anche (o soprattutto) frutto di uno scontro interno: i conservatori attaccano il governo del presidente Hassan Rouahni, reo di aver aperto verso l’Occidente col Nuke Deal e di aver cercato di riformare diverse strutture dell’ecosistema nazionale (per esempio i settori economici come quello del cambio monetario informale dove il potere s’è incrostato). Potrebbe essere lui, e il suo governo, alla fine, a pagare il prezzo più alto, con la linea teocratica che sfrutta l’occasione per usarlo come capro espiatorio e farlo fuori.

 

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