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Rugby e politica. Un altro tabù sconfitto nell’inquieto Sudafrica

Se Nelson Mandela ci fosse ancora, batterebbe forte le mani. E il suo cuore palpiterebbe. Lui, sul valore unificante del rugby nell’era densa di promesse del dopo-apartheid, aveva puntato alla grande, e a ragione.

Il trionfo della nazionale sudafricana, i mitici Springboks, nella Coppa del Mondo del 1995 – tutti bianchi, ma uno (assoluta rarità) di colore, Chester Williams, protagonista della finale contro gli ‘All blacks’ neozelandesi, fu festeggiato all’unisono dall’intera popolazione e (nobilmente) usato dal padre fondatore della ‘Rainbow nation’ – la “nazione arcobaleno” – per lanciare un messaggio forte di superamento delle barriere razziali. Sulle ali dello sport, l’appello di Mandela si librò verso il cielo. La speranza che l’impresa di buttarsi alle spalle le ferite della segregazione (‘forgetting apartheid’) fosse a portata di mano. Un’ illusione. In pochi anni tristemente smentita da resistenze e diffidenze, oltre che da interessi economici divergenti.

Per questo, all’inizio, premettevamo che – in questi giorni – il viso segnato del profeta della svolta sudafricana si sarebbe aperto ad un largo sorriso. Di fronte alla favola bella che ha fatto rapidamente il giro del mondo e che riguarda ancora una volta il rugby, sport duro e spigoloso, ma contrassegnato da lealtà e fratellanza. Non soggiogato e stranito dalla dittatura imprescindibile del Dio denaro, non condizionato dai ricatti e le violenze degli ultrà del calcio e dal loro torbido mondo (che, in Italia – purtroppo – conosciamo bene).

Una favola, dunque. Quella dell’ex-cenerentolo Siya Kolis, ragazzone nero di ventisei anni, origine umilissime, nativo del disagiato sobborgo di Zwide, un tiro di scoppio dalla rutilante Port Elizabeth, provincia orientale del Capo. Uno in gamba, testa sulle spalle, a quindici anni il primo provino – in boxer, non aveva nemmeno maglietta e calzoncini – per una società di rugby vera. Un successo dopo l’ altro. Grazie a serietà e perseveranza. Fino all’approdo nello squadrone del suo destino, i gloriosi “Stormers”. E all’indiscusso sbarco in nazionale. Sempre umile e disponibile. Ventotto presenze con la maglia degli “Sprinboks” (le “antilopi”), vanto sudafricano. E, recentissimamente, la decisione bomba del coraggioso e lungimirante commissario tecnico, Johan Rassie Erasmus.

Da sabato prossimo – tradizionale “test match” con gli inglesi a Johannesburg – Siya “il gigante buono” indosserà la fascia da capitano, primo nero ad essere investito del prestigioso compito in 127 anni di storia della ‘palla ovale’ sudafricana. Terza linea-ala potente e veloce, l’ex bimbo povero della periferia urbana volerà sempre più in alto, senza dimenticare – assicura – le sue radici, invitando i giovani svantaggiati a osare e a volere. Perché “se si vuole, si può”.

Appello all’ottimismo della volontà in un Paese dalla grande ricchezza, prima economia africana, ma che vive un’altra difficile fase dopo i guasti provocati dalla lunga presidenza dell’autoritario Jacob Zuma, “traditore” degli ideali di Mandela.

Il neo-capo della nazione, Ciryl Ramaphosa, ex-sindacalista e avvocato di buona volontà, gioca la carta della lotta alla corruzione e del rilancio della produttività per riconsegnare sicurezza e fiducia agli investitori esteri. Ma il compito è arduo, lo scontento è diffuso, le tensioni razziali ancora serpeggianti, le leve del potere economico-finanziario saldamente in mano all’oligarchia bianca degli ‘afrikaner’, cui Ramaphosa intende confiscare buone parte delle terre nell’avventuroso (discutibile) tentativo di imboccare la via di un riequilibrio forzato delle disparità.

In un contesto del genere, incerto e insidioso, la caduta del tabù che sancisce l’irresistibile avvento di capitan Kolis alla guida della nazionale di rugby è intrisa di significati speciali.


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