Gioacchino Volpe (1876-1971) è stato uno dei più grandi storici del Novecento. La sua opera è di fondamentale importanza per comprendere il Medio Evo e l’Italia moderna. Di respiro europeo ha dato agli studi storici una spinta innovatrice riconosciuta perfino da intellettuali come Antonio Gramsci. Oaks Editrice propone un’antologia di scritti di Volpe: “L’Italia tra le due guerre” (pp.303, 20 euro) curata dal nostro collaboratore Gennaro Malgieri, dalla cui prefazione pubblichiamo la parte conclusiva.
Gioacchino Volpe, più di ogni altro intellettuale probabilmente, ha cercato in quegli anni (tra le due guerre, ndr) di fornire un quadro delle origini e dello sviluppo della nazione italiana, rilevandone i valori storici, mettendone in evidenza il “carattere”, raccontando lo svolgimento della formazione delle sue istituzioni. Osservandola perfino come “creazione dell’Europa”, tesi che brillantemente espose nella prolusione al corso di Storia politica moderna presso l’Università di Roma e poi pubblicato nel 1925, con il titolo “Italia e Europa” nella rivista “Gerarchia”.
In questo contributo alla definizione della nazione italiana in rapporto al continente Volpe osserva come essa abbia tessuto “la sua storia nell’ambito della storia degli altri”; e come questa storia sia il prodotto del dare e dell’avere, in termini soprattutto culturali rispetto alle altre nazioni. Sicché Italia ed Europa non possono essere pensate distintamente o addirittura in contrapposizione, ma “insieme” come risultati di un affinamento reciproco: “Dal giorno che l’Europa, organizzatasi in Stati nazionali, si accostò alla penisola; dal giorno che iniziò la conquista e gli Italiani entrarono in più stretto contatto con gli altri, cominciò allora la formazione degli organi di difesa e di collaborazione, cioè il processo verso lo Stato nazionale”.
La “questione italiana”, dunque, era per Volpe “questione europea”. Questione antica che si pose, in maniera evidente, tra il XV e il XVII secolo quando l’influenza italiana cominciò a farsi sentire in Europa, quando l’Italia incontrò e prese a frequentare altri popoli e, tutt’altro che gelosa del proprio retaggio, gettò se stessa, la sua cultura, i suoi uomini nel crogiolo della formazione degli Stati nazionali europei dando ad essi supporti decisivi. E, nel contempo, facendo prendere consistenza al soglio di Niccolò Machiavelli: una nazione italiana politicamente coesa e autorevolmente guidata, premessa per la sua unità”.
Verso la metà del XVIII secolo, il pensiero in Italia, affermava Volpe, passa dai problemi marginali come la moneta, le dogane, l’agricoltura a quelli più politici e dunque “centrali” come lo Stato, la nazione (ancora in formazione) nei suoi prevedibili assetti interni e nelle sue proiezioni internazionali. Comincia così “lo sforzo di realizzare nell’ordine istituzionale il senso della morale unità”.
Questo disegno ispirò in parte, con tante contraddizioni e spregiudicati interventi politici, diplomatici e militari, il processo risorgimentale, ma era destinato a compiersi dopo la Prima guerra mondiale quando accanto al popolo che avvertì di essere diventato qualcosa di molto prossimo ad una “comunità di destino” si formò una classe rivoluzionaria che divenne il nerbo della costruzione dello Stato-nazione.
Di questo impegno, che si aggiungeva a quello di storico, Volpe fu testimone e protagonista ad un tempo. Con la scrittura intervenne per contribuire a dare spessore a quella vocazione che sentiva irresistibile dopo man mano che gli eventi scatenati dalle fine della Guerra mondiale si succedevano. Vestì i panni del critico e dell’ideologo. Non scansò la cattedra e lo studio profondo del tempo andato, ma ritenne, al contempo, di “sporcarsi le mani” con la più nobile delle arti: la politica. Mai – neppure nella tormenta succeduta all’8 settembre 1943 – avrebbe immaginato che essa sarebbe diventata, come è diventata, talmente inconsistente e lurida e tragicamente malsana al punto da poterla violentare impunemente. Al tempo in cui l’abbracciò lo fece con la passione e l’entusiasmo dello studioso che incontra l’oggetto dei suoi pensieri e se ne invaghisce. Storia e politica si fusero in lui e mirabilmente coesisterono fino a quando resse la nazione, quella nazione che lui aveva contribuito a far crescere.
Dal giornale su cui incominciò ad esprimersi politicamente, il giornale che un ambizioso ed irruente rivoluzionario aveva fondato il 15 novembre 1914, Volpe introdusse nella cronaca elementi storico-culturali che valsero a definire il movimento che quel foglio rappresentava. Il suo direttore, Benito Mussolini, nel presentare ai lettori il nuovo collaboratore, scrisse: “Non è un professore nel senso pedantesco della parola, ma un uomo dallo spirito agile e complesso, che partecipa alla vita contemporanea e ne coglie gli aspetti e ne traccia le direzioni”. Nel “Popolo d’Italia” Volpe trovò la palestra a sua misura per esercitare, con l’ausilio della vasta cultura e del sicuro senso storico, una critica politica mai banale mentre proponeva le analisi degli avvenimenti che si compivano sotto i suoi occhi diventando immediatamente storia. Il fascismo a cui aderì senza rinunciare al monarchismo ed al conservatorismo di cui era impregnato, ma che interpretò come la rivoluzione necessaria per far uscire l’Italia dalla palude civile e sociale nella quale era stata trascinata da impotenti “parlamentaristi” di professione, diventò il campo da arare con intelligenza e senza mai lasciarsi sedurre dal potere pur frequentandolo. Non tradì, insomma, il “regno di Clio” neppure per correre l’avventura più spericolata e al tempo stesso ricca di fascino della sua vita. Rimase un professore universitario, ma pose la sua competente lettura del passato al servizio dell’attualità che lo avvolgeva come se fosse un’irresistibile donna.
La voluttà della politica, tuttavia, non lo travolse e, come dimostrano gli scritti che qui si ripropongono dopo tanto tempo dalla loro pubblicazione, sono le prove più eloquenti della sola passione dalla quale Volpe si sia lasciato travolgere: quella per la nazione che priva vide nascere, poi la seguì in cammino, quindi ne descrisse la formazione e ne vagheggiò la grandezza, infine la glorificò, senza nessuna indulgenza retorica, quando dalla lotta politica emerse come autentica comunità civile degna della storia da cui discendeva. E nelle pagine dedicate al movimento fascista nessuno potrà leggervi gratuito compiacimento, tanto in voga tra i retori del tempo, bensì l’ardore e la passione di un uomo incantanti dai progressi di un popolo che si affrancò da tutto, perfino dalla sua pigrizia per farsi soggetto storico attraverso la politica.
Commentando l’approccio di Volpe al fascismo ed allo studio delle origini del movimento e dunque dei primi risultati della rivoluzione, nella sua prefazione agli “Scritti sul fascismo 1918-1938”, Piero Buscaroli, con poche pennellate, eleganti e profonde, tipiche del suo stile di studioso severo e di giornalista rigoroso, scrive: “Se qualche punta solitaria della storiografia marxista sembra giungere adesso a liberarsi della tediosa superstizione che il fascismo fosse un momento dell’agonia capitalistica, necessariamente subordinato alla ‘borghesia’, Gioacchino Volpe aveva già colto col suo occhio di uomo erudito, ma soprattutto curioso della vita, proteso verso le sue forze libere e fresche, quel pullulare di energie che gli appariva ‘innanzi tutto mutamento interiore, desiderio di più coerente ed alacre vita nazionale, febbre di azione, volontà di fare gli italiani’”.
Ed erano forze ed energie che si erano formate appunto nel “commino dell’Italia”, dunque non nate per caso o apparse per grazia ricevuta. Erano le fibre di un popolo che finalmente dopo secoli si ritrovano politicamente in movimento spinte da una cultura comune, da un comune sentire, da un sentimento di appartenenza che come un fascio si proponevano di fronteggiare perfino l’impossibile e l’Italia si ritrovò nazione per come Mazzini l’aveva sognata e Oriani preconizzata.
Ma c’è qualcosa di più negli scritti di Volpe tra le due guerre ed è l’avvicinarsi progressivo dello studioso alla penetrazione del carattere dell’Italia che aveva visto formarsi attraverso le carte, i documenti, i libri, i monumenti, l’arte. Ci soccorre in quest’opera di decifrazione di un tale singolare avvicinamento ancora Buscaroli con la sua intelligenza supportata da vastissima cultura: “Oso affermare che senza una pratica profonda del suo medioevo, non è data una conoscenza vera della storia italiana. Al medioevo male si adattano le vaste campate dell’intuizione idealistica. Volpe respira il clima di un empirismo pratico non ancora impacciato da pregiudiziali ideologiche; che difatti, Croce gli rimprovera con quella ‘qualifica di storico economico-giuridico’, che Gioacchino rimpiangeva di trovarsi ‘appiccicata addosso’ come definizione riduttiva e limitativa, e che invece, nello scorrere del tempo, stabilisce la sua aderenza alla realtà dei tempi descritti, e la pratica inutilità della crociana Storia d’Italia.”
È talmente nel vero Buscaroli quando si riferisce al Medio Evo da Volpe reso fruibile a chi nutriva pregiudizi verso i cosiddetti “secoli bui” che la storiografia successiva si è incaricata di stabilire quali siano stati i prodromi della formazione della nazione italiana individuando proprio in quel periodo, che neppure alti gerarchi del fascismo per quanto dotati di buona cultura riuscirono a comprendere. E dal Medio Evo ai fasti dell’Impero tornato sui “Colli fatali di Roma” è stata la cavalcata di una nazione che Volpe ha visto dispiegarsi sotto i suoi occhi come un viaggiatore nel tempo, mosso da una sola grande aspirazione far riconoscere la nazione a chi soltanto la intuiva parlandomi la stessa lingua e nutrendosi degli stessi “miti”.
Una vocazione antica quella di Volpe. Lo testimonia una lettera giovanile, del 1884, alla famiglia nella quale racconta una gita nella campagna toscana; la leggiamo confessando un adolescenziale entusiasmo che per un momento ci porta lontano dalle miserie del presente: “Piccole cascate scendevan fragorose da ogni balza. Bianche di spuma; davanti ad una di esse io mi denudai fino alla cintura e mi lasciai tutto inondare d’acqua fresca. Mi sembra che in quelle ore lo spirito nostro acquisti una speciale attitudine ad intendere la primitiva vita dei boschi, quando l’uomo era tutto una cosa con la natura vivente che lo circondava; io sentivo come riaffacciarsi in me l’antico spirito pagano che la civiltà cristiana ed il sentimento cattolico hanno affievolito in noi; e comprendevo, e quasi me ne sentivo compenetrare, il culto italico dei boschi e delle sorgenti”.
Non c’è dubbio: Gioacchino Volpe è stato l’ultimo sacerdote della laica “religione della nazione”.