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Conte, Tria, l’Europa ed il governo del cambiamento (e della continuità)

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Giuseppe Conte ha fatto bene a dire che il ruolo di Giovanni Tria è fuori discussione. “Non esiste che lasci”, come ha ribadito nella sua intervista al Corriere della sera. Precisazione necessaria dopo le polemiche emerse nei giorni passati in vista della madre di tutte le battaglie. Quella legge di bilancio che dovrà prendere forma, nel prossimo autunno. In questo aiutato dal nuovo monito del Presidente della Repubblica. Rinnovamento e continuità – come ha ricordato – sono stati i cardini della politica italiana dal dopoguerra ad oggi.

Il problema, tuttavia, è capire quale sia il punto di intersezione delle due curve. Dove finisce la continuità ed inizia il cambiamento e viceversa. Per tentare l’impresa, occorre riavvolgere il nastro. L’intesa di governo – “intesa” e non “alleanza” – aveva la forma, ma non la sostanza di un contratto. Era, invece, una dichiarazione di intenti o un gentlemen’s agreement, se si preferisce, i cui dettagli operativi erano rinviati ad un futuro prossimo venturo. Un contratto, inoltre, senza scadenza, ma da sviluppare, circostanze permettendo, durante l’intero arco della legislatura.

Dato questo contesto, il continuo salmodiare dell’opposizione sul costo eccessivo del programma non ha molto senso. Ammesso che valga 100 miliardi. In cinque anni fanno 20 miliardi l’anno. Matteo Renzi, in un momento molto più critico per la finanza pubblica italiane, ne spese 10 solo per il bonus di 80 euro. Il pericolo é altrove: nell’architettura del Fiscal Compact e nel suo progressivo allontanamento dall’andamento dei processi reali.

I lavori in corso per la sua realizzazione erano iniziati nel 2010, su sollecitazione di Angela Merkel. La grande crisi bancaria era stata risolta grazie all’intervento dello Stato. Miliardi profusi da Francia, Germania, Inghilterra e Spagna per salvare i rispettivi istituti di credito malati di moral hazard. L’Italia era rimasta fuori, per le caratteristiche più domestiche del suo sistema bancario. Istituti che “non parlano inglese”: come si disse. Ma questo non le impedì di partecipare alle spese, conferendo svariati miliardi all’Efsf, (il fondo salva stati) poi sostituto dal Mes. Somme destinate a pesare sul suo ingente debito pubblico.

Il pericolo di allora era rappresentato dal rischio all’assuefazione. Superati i vincoli posti dal “Patto di stabilità”, si temeva una via senza ritorno, in termini di deficit e debito. Da qui la necessità di stringere i bulloni, prevedendo norme ancora più rigide. Ci volle una lunga trattativa che si concluse con una decisione intergovernativa nel dicembre del 2011. Decisione intergovernativa e non direttiva, la quale richiede una procedura rafforzata. Nel gennaio successivo si giunse alla stipula del relativo Trattato, con il diniego della Gran Bretagna e della Repubblica Cieca, con decorrenza 2013.

In quel periodo la maggior parte dei Paesi, con la sola esclusione della Germania, dell’Olanda e del Lussemburgo, avevano un doppio problema: l’eccesso di deficit pubblico ed uno squilibrio nei conti con l’estero. Nel 2012, ad esempio, l’Italia era ancora reduce da un deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti superiore al 3 per cento del Pil. Una stretta finanziaria era quindi doppiamente giustificata. Doveva ridurre l’eccesso di indebitamento e, al tempo stesso, deflazionare l’economia. Essendo saltato l’equilibrio tra domanda ed offerta complessiva.

Una cura che ha indubbiamente funzionato, seppure a caro prezzo da un punto di vista sociale e collettivo. L’Italia, infatti, non solo si è rimessa in carreggiata. Ma già dall’anno successivo il rosso profondo delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti si è trasformato in un surplus consistente (oltre 2 punti di Pil) destinato a durare, almeno secondo le previsioni, fino al 2021. Si deve quindi insistere, con la vecchia ricetta o chiedere una nuova cura, considerato il diverso stato di salute del paziente?

Questa è la richiesta che le autorità italiane dovrebbero rivolgere a quelle europee. Non per richiedere deroghe o maggiore flessibilità una tantum, ma per disegnare una nuova architettura del Fiscal Compact che tenga anche conto delle altre variabili del quadro macroeconomico. A partire dal livello della disoccupazione, che rappresenta la spia più evidente dell’insufficiente utilizzo dei fattori produttivi. Ed ecco allora il vero punto di caduta del binomio continuità – rinnovamento. La continuità riflette i mutamenti già intervenuti nella realtà economica e sociale dell’Italia. Il rinnovamento nel far sentire la propria voce, in difesa di un interesse generale. Senza voler derogare da quei canoni di razionalità che da sempre presidiano lo statuto dell’economia come scienza sociale.

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