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Perché fa bene Di Maio a chiedere limpidezza sulla vendita di Ilva

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Il ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio, aderendo prontamente ad una formale richiesta del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano di accertare i criteri di aggiudicazione del gruppo Ilva alla cordata AmInvestco a seguito della gara a suo tempo bandita – cui aveva partecipato anche il raggruppamento Acciaitalia composto da Jindal, Arvedi, Cassa Depositi e Prestiti e Delfin del gruppo Delvecchio – ha inviato la relativa documentazione all’Autorità anticorruzione come richiestogli dal suo interlocutore.

Acciaitalia aveva presentato un piano industriale, ambientale e occupazionale che a molti osservatori era apparso – per tecnologie, processi di produzione e numero di addetti previsti per il sito di Taranto – migliore di quello della cordata AmInvestco Italy risultata tuttavia vincente perché, secondo quanto ufficialmente noto, aveva offerto per l’acquisto dell’intero compendio impiantistico del Gruppo 1,8 miliardi di euro, a fronte di 1,2 miliardi proposti invece da Acciaitalia.

L’ex ministro Calenda, commentando la decisione del suo successore di inviare la documentazione all’Anticorruzione, ha definito ‘benvenuta’ ogni nuova verifica di legalità sull’operazione, ricordando peraltro che il Comitato degli esperti, nominato per la valutazione tecnica delle offerte, aveva dato parere positivo al piano AmInvestco (quale condizione per la stessa ammissibilità dell’offerta stessa) e che la gara si svolse sulla base di criteri e di parametri conosciuti ex ante e approvati dalla Commissione Europea.

Ora, nel formulare l’auspicio che l’Anticorruzione si esprima il più rapidamente possibile su quanto inviatole dal ministero dello sviluppo economico, è opportuno rilevare che ulteriori gravi ritardi nella definizione degli assetti proprietari dell’Ilva e di quelli impiantistici e occupazionali, soprattutto nell’area di Taranto, finirebbero col favorire i concorrenti – fra cui la stessa Arcelor che rimane tuttora fra i più temibili, non avendo ancora il possesso (tramite affitto) del Gruppo – dal momento che il Siderurgico ionico per i limitati volumi di produzione tuttora raggiunti e le difficoltà finanziarie che stanno caratterizzando la sua gestione ordinaria, non è in grado di esprimere sul mercato tutta la sua capacità competitiva che sarebbe molto elevata se potesse dispiegarsi nella sua interezza.

È questo un punto che, a nostro avviso, deve essere richiamato con forza all’attenzione di tutti, perché in qualche commentatore (sicuramente) malizioso potrebbe anche nascere il sospetto che, dietro una pur opportuna verifica di limpidezza dell’operazione di vendita, si nasconda in realtà il proposito di portare ad un lento e sempre più inesorabile declino lo stabilimento di Taranto con la sua inevitabile dismissione, alla fine di un travagliatissimo percorso di polemiche e di confronti infruttuosi.

È bene allora ribadire ancora una volta che la fabbrica ionica – la più grande del settore manifatturiero nazionale per numero di addetti diretti (10.980) – resta un pilastro di larga parte dell’industria meccanica italiana che, in caso malaugurato di chiusura in riva allo Ionio, dovrebbe importare dall’estero a prezzi più alti i beni intermedi necessari ai suoi processi di trasformazione.

E bene ha fatto secondo noi il ministro Di Maio, nell’incontro di lunedì scorso al Mise, a dichiarare con inequivocabile chiarezza che le modifiche migliorative agli interventi ambientali e ai livelli occupazionali secondo lui necessarie e richieste alla cordata vincitrice, erano avanzate ad Arcelor e non “alla Walt Disney”, con ciò volendo significare che non ha alcun fondamento ogni ipotesi di trasformare l’area tarantina dell’Ilva in un grande Disneyland. Se ne facciano pertanto una ragione gli ambientalisti che, tentando ora di mettere in difficoltà il nuovo Ministro allo sviluppo economico, si ostinano a chiedere la chiusura del Siderurgico, il cui funzionamento, pur ridotto, continua a sostenere larga parte del pil della provincia e che deve essere reso sempre più ecosostenibile, ma certamente non da chiudersi.

Se invece si volesse una radicale riconversione tecnologica dei processi di fusione e colata a Taranto, con l’introduzione (totale o parziale ?) di forni elettrici e l’uso del preridotto di ferro, allora se ne parli con assoluta chiarezza, senza alcuna indulgenza alla propaganda, con competenza tecnica, conoscendo le dinamiche del mercato mondiale del rottame e del prezzo del gas, e definendo con precisione costi e cronoprogrammi di un percorso di riconversione che non sarebbe né breve né poco costoso, anche per le maestranze impiegatevi.

Infatti, com’è facilmente intuibile anche da uno studente di 1° anno di impiantistica siderurgica, dovendosi cambiare “il motore mentre l’auto è in corsa” – fuor di metafora, innovando progressivamente il ciclo produttivo, in uno stabilimento che deve restare in esercizio – ci si deve assumere la responsabilità di indicare con assoluto rigore economico-finanziario e senza dilettantismi: a) i costi di avvio di una radicale o parziale riconversione; b) i ricavi possibili e comunque necessari lasciando in esercizio (con i loro costi) almeno due se non tre altiforni per una fase non breve; c) la sostenibilità economica di una tale fase di transizione; d) l’entità delle risorse necessarie per gestirla; e) chi debba conferirle (privati, lo Stato, entrambi?); d) quali debbano esserne le attese di redditività.

È auspicabile allora che tutti i soggetti in campo – senza isterismi, minacce, sospetti e reciproche contumelie – si misurino sino in fondo, senza infingimenti e in tempi rapidi (lavorando, se del caso, anche di notte e in giorni festivi) con quanto abbiamo prima richiamato. Nessuno può tenere in ostaggio occupati diretti e nell’indotto dell’Ilva a Taranto come altrove, sfibrando tutti gli interlocutori con interminabili bracci di ferro.

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