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Irlanda e insediamenti israeliani. Perché il problema è europeo

economia, israele

Lo sforzo di limitare i rapporti commerciali con gli insediamenti israeliani nei territori post-1967 è comune a molti Stati europei così come all’Unione Europea. Pur citando i principi di tutela del consumatore e di rispetto del diritto internazionale, è evidente la disparità di trattamento con altri casi, come il Marocco, la Cina e la Turchia che pur hanno simili dispute territoriali. Contrariamente a questi Stati, Israele scuote gli animi degli attivisti al punto di esser destinatario delle attenzioni di un movimento che promuove il boicottaggio di merci, prodotti, persone, istituzioni israeliani, il cosiddetto BDS. La disparità di trattamento è un caso fortuito della storia o il risultato di una convinzione politica che cristallizza il conflitto arabo-israeliano su posizioni anti-israeliane?

Nel 2013 la Commissione europea pubblica delle linee guida che escludono le imprese oltre le linee armistiziali del 1949 (detti anche confini del 1967) dai vari finanziamenti europei. Nel 2015, altre linee guida introdurrebbero la differenziazione delle merci fabbricate negli insediamenti israeliani. Negli stessi anni, il programma europeo della ricerca Horizon2020 esclude gli istituti di ricerca collocato nei territori post-1967 da qualsiasi progetto a finanziamento europeo.

Gli Stati scandinavi non sono da meno. Dal 2008, Svezia e Norvegia sono impegnate nell’esclusione di investimenti pubblici in qualsiasi azienda (israeliana o meno) che abbia rapporti con i territoripost-1967. Attraverso i “Consigli Etici”, organi che vagliano gli investimenti pubblici secondo standard di etica dell’impresa, alcune imprese internazionali e altre israeliane sono state escluse da investimenti statali perché operano (con diversa intensità) nei territori. L’accusa è di violazione del diritto internazionale umanitario, in quanto la presenza militare israeliana è ritenuta illegale. La categoria è nuova e applicata solo per quanto riguarda Israele, che non viene valutata secondo le norme di protezione dell’ambiente, protezione dei lavoratori o dei diritti umani, che normalmente costituiscono il corpus della CSR, corporate social responsibility.

La Spagna conosce una politica di boicottaggio ancor più ufficiale: sono le autorità locali ad adottare politiche di sanzioni anti-israeliane. Nel 2016 il “Tribunal Superior de Justicia” della regione Asturias ha annullato l’atto del comune di Langreo con cui si adottava il boicottaggio, poiché la politica estera e il potere di iniziare sanzioni appartiene solo al governo. In una serie di altre pronunce i tribunali spagnoli hanno confermato questa linea. La municipalità di Segunto vicino a Valencia ha comunque votato circa due settimane fa a favore della politica di boicottaggio.

In Italia, l’attenzione delle autorità locali al conflitto tra Israele e Hamas si è tradotta di recente in ordini del giorno di condanna contro Israele per la risposta “non proporzionale” a quelle che ancora sono ritenute “proteste pacifiche” di Gaza, votati ai Consigli comunali di Torino e Napoli e accompagnati da richieste di embargo militare.

L’Irlanda ha fatto un passo in più, rendendo il commercio con territori occupati illegalmente, un crimine da perseguire secondo la legge penale. Secondo la proprietà di legge, le condotte criminali sono: importare prodotti da insediamenti, vendere prodotti da insediamenti, prestare servizi a insediamenti ed estrarre risorse da un territorio occupato. La pena prevista può arrivare fino a 5 anni di reclusione e 250.000€. Nel redigere questa proposta di legge, pensata contro Israele, non si è forse tenuto conto dei risvolti su altri Stati: Marocco, Cina e Turchia. Anzitutto, un pellegrino irlandese che compra un souvenir nella parte di Gerusalemme considerata illegalmente occupata (come per esempio la città vecchia), è perseguibile? Un caso più interessante può riguardare un’impresa irlandese che importa pesce pescato in Marocco. Il Marocco occupa il Saharawi da più di quarant’anni, ma questo non ha impedito all’Unione Europea di firmare accordi sui prodotti ittici col Marocco senza citare la provenienza del pescato (prevalentemente dalle acque a largo del Saharawi). La questione è arrivata anche all’ONU, il cui dipartimento legale ha elaborato nel 2011 un memorandum secondo cui il parametro di valutazione della legalità di un esercizio commerciale nel Saharawi sarebbe il beneficio verso la popolazione locale. Così come il Marocco, anche la Cina (con il Tibet) e la Turchia (con Cipro), sono da citare. È significativo che non esistano movimenti che promuovono il boicottaggio di questi Stati, o che non siano così organizzati da poter influenzare le politiche di parlamenti e governi.

Oltre alla disparità di trattamento, alla strumentalizzazione dei valori internazionali di giustizia ed eguaglianza, c’è da analizzare quanto queste iniziative possano effettivamente favorire un clima di negoziato che arrivi a un accordo sulle dispute territoriali, o quanto invece favoriscano un clima di inimicizia che spinge entrambe le parti ad arroccarsi su posizioni massimaliste.



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