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La libertà religiosa come strategia diplomatica. Cosa si è detto al summit di Washington

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“Grazie ai molti ministri degli esteri, ai leader religiosi e ai superstiti di persecuzione religiosa che hanno condiviso le loro storie all’ è così essenziale. L’amministrazione Trump, tra cui il vice presidente, si impegna a proteggere questa preziosa libertà”. È questo il commento che il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, affida alla conclusione della ministeriale sulla libertà religiosa ospitata a Washington alla presenza di dozzine di paesi. Scommessa globalista di un’amministrazione attaccata per l’isolazionismo nazionalista, che su certi temi – complice anche un ottimo bacino elettorale interno, da scaldare per le Midterms – ritrova l’impegno nel campo dei diritti democratici che da sempre hanno caratterizzato le visioni degli Stati Uniti d’America.

Dalla prima riunione ministeriale del genere esce anche un impegno concreto: il dipartimento di Stato e l’Usaid (il fondo americano per lo Sviluppo internazionale a cui il presidente Donald Trump ha drasticamente tagliato i fondi perché simbolo di quel globalismo con pochi ritorno diretti che l’attuale Casa Bianca critica) collaboreranno a un nuovo programma per garantire che gli aiuti pubblici e privati ​​possano rapidamente raggiungere le minoranze religiose perseguitate. Trump ha sposato l’iniziativa.

Pompeo ha letto la Potomac Declaration, che proclama la libertà religiosa come “un diritto umano di vasta portata, universale e profondo che tutti i popoli e le nazioni di buona volontà devono difendere in tutto il mondo”, così come un piano d’azione di accompagnamento.

“Questi documenti riaffermano il fermo impegno degli Stati Uniti a promuovere e difendere la libertà religiosa”, ha detto il segretario, e “raccomandano modi concreti in cui la comunità internazionale e i governi possono fare di più per proteggere la libertà religiosa e le comunità religiose vulnerabili”. E anche il vicepresidente Mike Pence ha ribadito l’impegno degli Stati Uniti in quello che l’amministrazione rivendica come un evento senza precedenti.

“Gli Stati Uniti sono anche impegnati a garantire che la libertà religiosa e il pluralismo religioso prosperino pure in Medio Oriente. A tal fine, l’America sta lanciando una nuova iniziativa che non solo fornirà ulteriore sostegno alle comunità più vulnerabili, ma confidiamo che incoraggerà anche la società civile per contribuire a fermare la violenza in futuro “, ha detto Pence mentre annunciava l’istituzione del programma di risposta alla persecuzione e al genocidio. Inevitabile non toccare linee politiche più strette, a cominciare dal confronto con l’Iran, paese dove la libertà religiosa è soffocata dalla teocrazia sciita e che da tempo è al primo posto dei bersagli dell’amministrazione Trump – “Siamo con voi”, è tornato a dire Pence, flirtando con il regime change in una strategia della massima pressione che potrebbe portare anche a possibili contatti: “Preghiamo per voi. E vi esortiamo, brava gente dell’Iran, a spingere con coraggio nella causa della libertà e di un futuro di pace per il tuo popolo “.

(Contraltare mediorientale l’ambiguità saudita, alleato ferreo della Washington di Trump, paese in cui finora il pluralismo religioso non è stato di certo al primo posto, ma che sta pubblicizzando un nuovo corso che passerà anche da determinate apertura sui diritti).

Pence ha detto che l’amministrazione Trump aveva già inviato oltre 110 milioni di dollari in Medio Oriente. (I fondi sono stati annunciati dalla vicepresidenza nel 2017, ma sono stati lenti ad arrivare in aree come il Kurdistan iracheno che ha vissuto da vicino gli effetti della spietata persecuzione operata dallo Stato islamico contro tutti gruppi religiosi che non osservavano il sunnismo musulmano).

Presenti delegazioni di oltre 80 paesi, che hanno partecipato alla riunione ministeriale anche sposando le iniziative filantropiche spinte dagli americani – la delegazione italiana era rappresentata dall’ambasciatore a Washington, Armando Varricchio che ha commentato che “difendere la libertà religiosa e promuovere il dialogo interreligioso sono elementi centrali della politica estera italiana”. Agli incontri anche i leader di stati come l’Uzbekistan, che gli Stati Uniti hanno designato un Paese di particolare interesse (Cpc) di Livello 1 – la classificazione più dura, quella affibbiata ai paesi che non rispettano la libertà religiosa, e non a caso gli uzbeki proprio in questa settimana hanno annunciato riforme – e altri membri di alcuni Cpc di Livello 2,  come Bahrein, Egitto, Indonesia, Iraq e Kazakistan (e anche qui, non è un caso se il Bahrein ha annunciato che avrebbe costituito un ambasciatore per la libertà religiosa internazionale: serviranno le implementazioni per i riscontri, ma è evidente che su certe linee la pressione politica americana ha ancora un peso).

Durante gli incontri è stata affrontata anche la vicenda del pastore americano Andrew Brunson, attualmente detenuto in Turchia. Martedì, sua figlia ha testimoniato sulle condizioni di suo padre; mercoledì, la notizia che Brunson sarebbe stata spostata dalla prigione agli arresti domiciliari ha ricevuto una standing ovation dal pubblico; giovedì, Pence ha minacciato la Turchia se non lo avesse rilasciato: “Se la Turchia non intraprenderà azioni immediate per liberare questo innocente uomo di fede e rimandarlo a casa in America, gli Stati Uniti imporranno sanzioni significative alla Turchia fino a quando il pastore Andrew Brunson sarà libero”, ha detto.

La Turchia non è stato l’unico paese attaccato per nome da Pence. Il vicepresidente ha citato anche il Nicaragua, dove ha accusato l’amministrazione Ortega di “condurre una guerra virtuosa contro la Chiesa cattolica”; ha condannato la persecuzione cinese contro i buddisti tibetani, i musulmani uiguri e cristiani, così come le azioni del suo vicino autoritario, la Corea del Nord, e ha lanciato un pensiero ai testimoni di Geova che in Russia sono dichiarati fuori legge e agli attacchi di radice antisemita in Europa.


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