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Woodoo economics? No, Paolo Savona ha ragione. Vi spiego perché

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L’attacco dei benpensanti contro Paolo Savona sta assumendo le caratteristiche di una guerra totale. Al punto da renderlo un personaggio simpatico, nonostante il suo carattere, tutt’altro che mite. L’offensiva prende lo spunto dalle sue tesi sul ruolo della Bce e su suoi ventilati proposti di riforma. Che per la verità non convincono, considerati i diversi assetti istituzionali in cui la Banca centrale è costretta ad operare. L’Eurozona non è uno stato federale, ma come osservava Robert Mundell “un’area monetaria non ottimale”. Di questo Savona non vuole tener conto, ma pensa che, anche grazie al suo progetto, l’Europa possa accelerare ed uscire dalla sua incompiutezza.

Ma da qui a sparare a zero sulla sua impostazione, come fa ad esempio Sandro Brusco, dalle pagine de Il Foglio, ce ne corre. Il pomo della discordia riguarda l’attivo della bilancia commerciale italiana. O meglio quello delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che dal 2012 in Italia è in attivo. Un attivo consistente, visto che nel 2017 è stato pari al 2,7 per cento del Pil. E le previsioni dell’ultimo Def, al 2021, lo danno in ulteriore aumento. Secondo Paolo Savona, e non solo, si tratta di circa 50 miliardi. Che corrispondono ad altrettanto risparmio interno non utilizzato.

Qual è il significato economico di questa grandezza? Nello schema della produzione del reddito, quest’ultimo é dato dalla somma dei consumi interni (pubblici e privati), dall’aumento o dalla diminuzione delle scorte, e dai conti con l’estero. Le esportazioni contribuiscono ad aumentarlo, le importazioni a diminuirlo. In una situazione di normalità, il contributo dell’estero dovrebbe essere pari a zero. Le importazioni di beni, materie prime e servizi, sono interamente “spesati” dalle esportazioni. Il che non significa, necessariamente, una posizione di equilibrio. Se la produttività complessiva di sistema (totale dei fattori ed aziendale) fosse inadeguata, potremmo avere un sistema economico che gira comunque a basso regime. Utilizza tutta la capacità produttiva degli impianti, ma non riesce ad assorbire mano d’opera in eccesso.

Se le partite correnti della bilancia dei pagamenti sono in rosso, il tasso di crescita risulta compresso dal maggior peso delle importazioni sulle esportazioni. La causa é determinata da un eccesso della domanda interna rispetto alla potenzialità dell’offerta. Che a sua volta può derivare da fattori diversi: strozzature nei sistemi di produzione, politiche salariali disallineate dai sottostanti livelli di produttività, eccessi di spesa pubblica, che contribuiscono a gonfiare i consumi. In alcuni casi può anche essere la risultante di una ripresa congiunturale di investimenti, specie dopo la svolta del ciclo. Ma il caso è più raro.

Dal dopoguerra in poi, l’Italia ha patito più i momenti di deficit che non di surplus dei suoi conti con l’estero. L’eccesso di domanda interna determinava, in genere, tassi di inflazione superiori a quelli dei Paesi concorrenti. Sebbene una politica monetaria tendenzialmente restrittiva tendeva a contenerla. I continui moniti di Guido Carli ai responsabili della politica economica nazionale. Finché la corda non si spezzava ed allora interveniva la svalutazione monetaria.

Un paradigma che oggi appare rovesciato. Se non vi fosse la moneta unica, l’Italia come la Germania (quest’ultima in misura ben maggiore) sarebbe costretta a rivalutare. Nonostante (nel caso italiano) l’elevato livello di disoccupazione. Il paradosso individuato da Keynes della “povertà nell’abbondanza”: segno evidente della non completa utilizzazione dei fattori produttivi esistenti. Per ritornare ad una situazione di equilibrio sarebbe necessario aumentare la domanda interna. Meglio, ovviamente, dal lato degli investimenti, visto lo stato preoccupante delle infrastrutture non solo materiali del nostro Paese.

Dovrebbero farlo i privati. Ma il loro compito è ben difficile. Gli impianti, proprio a causa della bassa tenuta della domanda interna, sono sottoutilizzati. Tirano solo quelli collegati con le esportazioni, che hanno un loro mercato. Quindi ben pochi sono disposti a rischiare nuovi capitali. Ed allora non resta che ricorrere allo Stato. Investimenti pubblici, quindi, superando le strozzature giuridiche ed istituzionali che li ostacolano. Questo, in fondo, è il ragionamento di Savona. Tutt’altro che eversivo. La woodoo economics denunciata dal Foglio non c’entra alcunché. È, semmai, pura ortodossia keynesiana. Sempre meglio, tuttavia, di quel liberismo “alla tedesca” che sta disintegrando l’unità europea.

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