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Salvini, la rivoluzione conservatrice e il mondo multisovrano

La storia non ha sempre la stessa velocità. Talvolta infatti gli accadimenti procedono lenti, talvolta invece corrono addirittura più rapidi delle interpretazioni. E quanto sta avvenendo nel mondo, in queste settimane, ha una celerità perfino rivoluzionaria.

Dappertutto, finanche laddove come in Messico vince la sinistra Morena di Obrador, proliferano forme nuove di nazionalismo, che stanno sempre più dissolvendo tutti gli assetti politici internazionali ritenuti validi finora, contestando molti valori pubblici ritenuti dogmaticamente certi, ma che, evidentemente, la gente comune non sente più come così assoluti. L’Europa, in modo peculiare, sta vivendo ovunque il forte ritorno dei movimenti particolaristici, altrimenti definiti sovranisti o populisti, la cui meta è antagonista agli spazi aperti e indefiniti dell’astrazione retorica universale.

Il fenomeno è talmente prepotente da aver messo in crisi la credibilità del già traballante governo tedesco di coalizione guidato da Angela Merkel, oggi costretto non soltanto ad arginare la Spd a sinistra, ma anche le minacciate dimissioni del ministro bavarese Horst Seehofer. A livello più generale è ormai chiaro che sia nella parte orientale sia in quella occidentale dell’Europa si è diffusa una massiccia crisi dei partiti tradizionali, e una progressiva e montante crescita delle forze radicali ultraconservatrici.

La consueta convention annuale della Lega a Pontida ha incoronato ieri Matteo Salvini leader indiscusso del centrodestra italiano, popolarissima figura di punta della politica nazionale e rappresentante influente della linea sovranista globale.

Oltre ai consueti ragionamenti sulla politica interna, l’affermazione del suo discorso di ieri che più ha colpito è stata sicuramente quella relativa alla “Lega delle Leghe”, vale a dire ad una sorta di internazionale populista, secondo la più diffusa definizione data dai media.

In realtà questo concetto è ben lungi da essere stato non dico assimilato ma addirittura compreso nella sua essenza. I motivi di questa inadeguatezza ermeneutica sono molteplici, ma possono essere riassunti in due grandi ragioni: la prima è la scarsa conoscenza politologica della storia filosofica della destra europea; la seconda l’uso superficiale di categorie come populismo o savranismo, che finiscono per essere parole sdrucciolose, alla fine intese in modo equivoco, per non dire fallace, praticamente da tutti noi.

La visione conservatrice, nata durante la Rivoluzione francese come opposizione intransigente al contrattualismo volontaristico delle nuove idee egualitarie illuministe, non può essere identificata né con la scuola liberale e tanto meno con le diverse varianti della moderna socialdemocrazia.

Con la fine dell’egemonia ideologica del comunismo, negli ultimi venticinque anni l’alternativa unica è stata quella tra quei partiti che si riconoscevano ancora in una visione universale di tipo popolare e altri che sentivano maggiormente l’appartenenza alle varianti altrettanto universaliste del socialismo progressista. Semplificando, si può dire che vi è stata la persuasione certa di una neutralizzazione centrista del consenso, attorno a due varianti di una medesima idea europeista di democrazia, fondata su una missione a senso unico, morbida, timida o accentuata, secondo i casi, di superamento della statualità chiusa e di unificazione mondiale dell’umanità.

La vera grande novità di adesso, che il sovranismo sta ponendo esattamente al centro del dibattito politico mondiale, iniziando da Donald Trump negli Usa e dai conservatori inglesi, è esattamente il crollo di questo assioma, ossia la contraria affermazione che è proprio la finitezza del concetto di organizzazione politica a non poter essere cancellata e che l’ordine politico è conseguenza di un equilibrio tra nazioni distinte, forti e delimitate. Anzi, la nuova dualità che sta affiorando si basa esattamente sull’esigenza di difendere le nazioni come comunità naturali e storiche, e di spingere così il dibattito politico sull’opposizione “chiuso/aperto” “interno/esterno”, evitando di restare ancorati inutilmente ad antiche differenze astruse, ormai solo simboliche, tra classi economiche che di fatto non esistono più.

Insomma, non è la distinzione destra/sinistra che è venuta meno, ma il modo in cui è stata pensata tale distinzione fino ad adesso.

Anche il tema delle migrazioni è centrale non di per sé, ma esclusivamente nella misura in cui tale processo si sta accompagnando ad una forma di neo nomadismo, ossia ad interi popoli che si spostano dai loro Paesi di origine, sfruttando la nostra idea europea di una globalizzazione senza confini e giungendo disperatamente nei nostri Stati, senza avere però né una dimora fissa dove andare a vivere e neanche un lavoro probabile da poter occupare.

Ciò muove la nuova destra, da un lato, a vedere nell’Unione un ostacolo esterno sovranazionale e negli immigrati un’erosione dal basso di una soggettività politica che costituisce invece il pilastro di ogni possibile ordine politico.

Il grande consenso che i movimenti conservatori ottengono in tutti i Paesi costituisce di per sé un’alternativa netta ed inequivocabilmente rivoluzionaria all’antico concetto extra statuale di relazioni internazionali, privilegiato fin qui, incentrato sull’universalità astratta del genere umano. I popoli del mondo sentono come impellente affermare prima l’identità popolare propria di ciascuno, traducendola nel rafforzamento dei singoli governi democratici, per affrontare soltanto poi la sfida del multiculturalismo e degli spazi d’insieme.

Tutto ciò ha poco a che fare con quanto è inteso all’interno del concetto classico di populismo e sovranismo, e non ha nulla a che vedere con il razzismo e la xenofobia.

In gioco vi è, viceversa, il privilegio che viene dato all’ordine naturale dell’umanità, basato su comunità piccole, costruite attorno alla riconoscibilità linguistica immediata tra persone differenti, attaccate ai propri luoghi di vita e alle proprie tradizioni, piuttosto che su un’apertura indifferenziata tra individui che non tengano conto delle conflittualità che si verificano inevitabilmente tra soggetti sociali non in grado di riconoscersi ed integrarsi tra loro.

Questa Lega delle destre non ha nulla a che vedere con il liberalismo di matrice anglosassone ed è l’opposto del progetto di omologazione globale tipico della sinistra.

La suddivisione in Stati, infatti, o appartiene o non appartiene alla natura umana. La distinzione tra popoli o è propria dell’ordine sociale oppure no. L’apertura alle diverse comunità presuppone o non presuppone la presenza di identità stabili e forti di tipo identitario. La famiglia classica appartiene o non appartiene alla natura umana.

Questi sono i quesiti a cui rispondere, sapendo che davanti ad alternative del genere esiste solo un Sì oppure un No. Non si può pensare infatti di cavarsela senza decidere o, peggio ancora, che si debba essere obbligati, non si sa per quali imperscrutabili ragioni, a riconoscere legittimo solo un sì o solo un no: per altro a dilemmi umanamente fondamentali sollevati con terrificante drammaticità nel nostro presente dal terrorismo, dall’immigrazione e dalla perdita di sicurezza collettiva.

Il fatto vero è che le destre oggi hanno una risposta chiara e netta di tipo particolaristico alle sfide del pianeta, mentre popolari e socialisti non ne hanno una che sia realmente convincente.

La destra cresce, in fin dei conti, perché persuadono la gente le ragioni di sempre del conservatorismo politico, il quale nel presente dimostra la debolezza opposta di una filosofia della storia socialdemocratica e popolare giunta inesorabilmente al capolinea.


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