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Il governo investe su Tripoli. La missione di Moavero e il rapporto con gli Usa. Parlano Saini Fasanotti e Mezran

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Il ministro degli Esteri italiano, Enzo Moavero Milanesi, è volato oggi in Libia a marcare ancora la presenza italiana al fianco di quelle che la Farnesina definisce “le legittime istituzioni” del paese, ossia il governo installato a Tripoli tre anni fa dall’Onu e affidato a Fayez Serraj con l’obiettivo di rappacificare il paese, diviso in una miriade di gruppi armati e posizioni politiche e tribali, sostanzialmente raggruppate in due fazioni, a est e a ovest.

Moavero Milanesi segue un pattern già costruito dall’Italia con i governi precedenti, e che vede la Libia come un dossier di primissimo interesse. Pochi giorni fa era toccato al ministro degli Interni, Matteo Salvini, andare a Tripoli per vedere gli alti rappresentanti del processo onusiano, mentre tra qualche settimana, a fine luglio, toccherà al ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, a essere in Libia.

Un turismo diplomatico ad alta intensità che tra poco potrebbe coinvolgere anche il presidente del parlamento europeo, Antonio Tajani, che secondo i rumors diplomatici starebbe pianificando un viaggio a Tripoli, anche per dare una sponda internazionale al lavorio diplomatico europeo al fianco dell’uomo dell’Onu.

La Farnesina precisa che l’obiettivo del viaggio del ministro Moavero è quello di dare spinta e centralità al dialogo politico e di riconciliazione nazionale onusiano, ma anche al partenariato strategico (economia, sicurezza, flussi migratori) con l’Italia. Il capo della diplomazia italiana vuole incontrare personalmente Serraj e alcuni alti funzionari del suo Consiglio presidenziale, tra cui il vice, Ahmed Maitig, che ieri era a Roma, dove ha avuto un colloquio con il vicepresidente del Consiglio, il ministro Salvini – Maitig è da molto tempo in stretto contatto con le autorità italiane, si è visto il 25 giugno con Salvini a Tripoli e il loro incontro si è chiuso con qualche incomprensione sugli hotspot migratori che l’Italia avrebbe voluto costruire in Libia, ma su cui i libici non era perfettamente informati e d’accordo (ieri, quando l’italiano ha chiesto rapidamente la fine dell’embargo Onu sulle armi la relazione potrebbe essersi riallineata).

Da quando il consigliere per la Sicurezza nazionale americana, John Bolton, è passato a Roma in direzione Mosca, sembra che l’Italia abbia avuto una nuova spinta: Washington ci ha affidato il dossier? “Diciamo che la questione Libia viaggia su due binari diversi tra Italia e Stati Uniti”, dice a Formiche.net Federica Saini Fasanotti, analista italiana del più importante think tank del mondo, la Brookings Institution.

“L’attività diplomaticamente più aggressiva di Roma non ha niente a che vedere con gli Usa, perché sostanzialmente a Washington, almeno per il momento, sono interessati alla Libia come un territorio dove contenere le attività di alcuni gruppi jihadisti”. Gli americani sul lavoro italiano in Libia “non ci mettono becco”, commenta Saini Fasanotti, e “io credo più che altro che questo, diciamo, entusiasmo della nuova amministrazione italiana serva per farsi vedere più pragmatici agli occhi dei cittadini su un dossier a cui Roma è interessata, e contemporaneamente per cercare di raggiungere qualche risultato concreto”.

Argomento delicato questo, spiega l’analista, perché in effetti “da qualche parte occorre pur iniziare, ed è bene farlo partendo dalle parti politiche che in Libia godono del riconoscimento internazionale”, ma è anche vero che mancano del riconoscimento tra i libici. Serraj effettivamente non ha avuto mai un avallo elettorale, ha poca presa sui suoi cittadini e debole controllo territoriale: dall’altra sponda del paese, trova ​la ​resistenza armata del generale Khalifa Haftar, che ha sempre intralciato il processo onusiano (e dunque anche italiano) ​e che appare oggi sempre più isolato anche fra i suoi storici alleati arabi (Egitto in testa).

Anche in quest’ottica, fonti del governo italiano ci fanno sapere che nelle fasi successive dei contatti, l’Italia potrebbe includere nel dialogo “tutti gli attori intralibici” (come già fatto in passato, d’altronde): sia la Difesa che gli Interni, dicono funzionari dell’esecutivo di Roma che preferiscono l’anonimato per non​ parlare pubblicamente di un dossier delicato e riservato, hanno espresso interesse sull’ampliare il più possibile le relazioni e la discussione.

Risolvere il dossier libico è un interesse strategico italiano, su cui invece, spiega Fasanotti, “gli americani a livello di amministrazione non sono interessati perché è un territorio molto lontano da loro, e fondamentalmente non lo sono mai stati”. Però, aggiunge l’analista, “posso dire che quando lo scorso mese ho aggiornato sulla situazione il segretario alla Difesa, James Mattis, ho trovato una visione diversa”.

Mattis, “pur non avendo una grande libertà di azione, è stato molto interessato perché ha perfettamente capito l’importanza strategica delle Libia nei confronti dell’Europa; dalla conversazione che ho avuto si rende conto che non è una questione solo di terrorismo, il problema migratorio non controllato è stato dirompente per l’Europa, e per avere alleati forti devi averla unita, mentre la crisi dell’immigrazione la sta dividendo”.

“È una questione che riguarda uno scacchiere complesso, che per dire, arriva fino alla Russia”: il capo del Pentagono ha invece capito perfettamente che per bloccare l’immigrazione dai rubinetti libici occorre una stabilizzazione interna del paese, che corrisponde anche a una stabilità per l’Europa.

“Il Pentagono è il luogo dell’amministrazione americana dove l’interesse sulla Libia è stato tenuto alto e in questi ultimi due anni è lì che si è iniziato a elaborare strategie per il paese”, ci dice Karim Mezran, Resident Senior Fellow al Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council, altro importantissimo think tank americano. “Ora, è chiaro che al Pentagono non siano completamente attrezzati per i passaggi politico-diplomatici necessari a creare un sistema paese in Libia, ma sembra che in questo momento il segretario Mike Pompeo (il capo del dipartimento di Stato, ndr) abbia anche lui alzato il livello di coinvolgimento sul dossier”.

“La sensazione – aggiunge Mezran – è che gli americani in questo momento abbiano qualche interesse politico in più sulla Libia: qualche forma di appoggio, diciamo, nei confronti dell’Italia, come una spinta a mandare avanti Roma rassicurandola di una copertura”. D’altronde, ci spiega l’analista, l’idea americana di spingere la nomina la ex Chargé d’Affaires dell’ambasciata libica statunitense spostata a Tunisi, Stephanie Williams, come vice dell’inviato Onu per la Libia, Ghassan Salamé, è una prova di questo coinvolgimento discreto.

 

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