Quello fra Trump e il mondo dell’Intelligence americana è un rapporto travagliato, che ha finora vissuto di alti (pochi, a dire il vero) e bassi (moltissimi). L’annuncio della revoca del nulla osta di sicurezza all’ex numero uno della Cia, John Brennan, rientra a pieno titolo nella seconda categoria e rilancia tensioni mai sopite che affondano le loro radici nel controverso rapporto tra il magnate newyorkese e il Cremlino.
LA REVOCA DEL NULLA OSTA
La mossa di Donald Trump non giunge a sorpresa, anzi. Era stata già ventilata nelle scorse settimane dalla sua portavoce Sarah Huckabee Sanders. La sua portata, però rischia di rendere ancora più difficili le relazioni fra la Casa Bianca e i servizi segreti, nonché di incattivire ulteriormente un clima politico già teso per le vicine elezioni di ‘midterm’ in programma a novembre. Con il ritiro del cosiddetto ‘security clearance’, Brennan non avrà più accesso ad informazioni classificate, che secondo la presidenza americana verrebbero utilizzate a fini politici, mediatici ed economici. Stessa sorte potrebbe presto toccare ad altri otto funzionari che sono “sotto osservazione”, tra i quali l’ex direttore della National Intelligence James Clapper, il generale Michael Hayden (già direttore della Cia e della Nsa) e l’ex numero uno della Fbi James Comey, allontanato tra le polemiche dal suo incarico proprio da Trump.
L’OMBRA DEL RUSSIAGATE
Tuttavia, sotto quelle che superficialmente potrebbero apparire come schermaglie con ex altissimi funzionari – alcuni dei quali, come Brennan, legati a doppio filo all’era Obama -, continua a covare, secondo molti osservatori, il fuoco del Russiagate e delle numerose critiche incassate da Trump per la dialettica troppo conciliante adottata col suo omologo russo Vladimir Putin.
Che si tratti di una misura preventiva, di una punizione o di un abuso di potere, è difficile non collegare la decisione della Casa Bianca – criticata in maniera bipartisan – alla miriade di episodi che, da mesi e mesi, la vedono contrapposta all’intelligence proprio sul delicato dossier delle ingerenze di Mosca.
LO SCENARIO
La questione delle interferenze nelle elezioni americane – che negli Stati Uniti continua a tenere banco dalle presidenziali del 2016 e che ha dato vita all’inchiesta guidata dal procuratore generale Robert Mueller – ha finora acceso il dibattito d’oltreoceano. Dopo il criticato incontro a Helsinki col capo del Cremlino e a seguito dei ripetuti strappi con l’intelligence e con pezzi del suo stesso partito, la Casa Bianca ha annunciato nei giorni passati un inasprimento delle sanzioni economiche nei confronti di Mosca ed è trapelata la notizia di un prossimo ordine esecutivo per autorizzare il capo di Stato a sanzionare gli stranieri che interferiscono nelle elezioni statunitensi. Il testo, secondo fonti interne ai palazzi del potere americano ascoltate dal Washington Post, rappresenterebbe un chiaro segnale del cambio di rotta – in parte voluto, in parte indotto – che il capo di Stato vuole imprimere alla questione delle ingerenze che altre nazioni potrebbero attuare per alterare i processi elettorali del Paese.
LA DECISIONE DELLA CASA BIANCA
Alla base della decisione di Trump ci sono innanzitutto le crescenti pressioni ricevute da parte dei suoi consiglieri per condannare l’aggressione della Russia. La sua riluttanza a farlo è stata giudicata molto male sia internamente sia esternamente, ed è per questo che l’amministrazione intende ora dimostrare di essere determinata nel voler combattere la disinformazione e i cyber attacchi provenienti dall’estero, e in particolare da gruppi ritenuti collegati a Mosca.
Tra i più critici di Trump c’è stato proprio Brennan che è arrivato ad accusare Trump di “tradimento”, aggiungendo che Putin “lo tiene in tasca”). Frasi che non devono essere state dimenticate dalla Casa Bianca, che ora vuole regolare i conti con l’ex direttore della Cia.
I CONTRASTI CON L’INTELLIGENCE
Alla base di tutto c’è il caos scatenato dalla negazione pubblica di Trump dei tentativi di interferenza russi nelle elezioni del 2016, in totale contrasto con la conclusione alla quale sono invece giunte le agenzie di intelligence statunitensi e l’indagine di Mueller (13 cittadini e tre entità russi finora incriminati da un gran giurì).
Gli attriti tra la Casa Bianca e gli apparati di sicurezza nazionale durano da mesi, ma hanno raggiunto il loro culmine subito dopo il bilaterale tra Putin e Trump. Dopo le generose aperture del presidente Usa al Cremlino che gli sono costate anche l’accusa di “tradimento”, l’intelligence e il mondo della sicurezza americani sono insorti contro il capo di Stato come mai in precedenza.
A seguito del meeting, Putin si era detto disposto a collaborare con gli Stati Uniti nell’inchiesta sulle ingerenze russe nelle elezioni americane del 2016.
Poche ore prima, però, Dan Coats, il potente capo della National Intelligence, l’organismo che coordina le 16 diverse agenzie che compongono l’intelligence community americana, aveva lanciato un allarme chiaro, definendo i cyber attacchi di Mosca come una minaccia da “allarme rosso”, una situazione paragonata ai mesi precedenti all’11 settembre.
Le parole dell’altissimo funzionario non avevano però fatto presa su Trump, che alla domanda di un giornalista (“Lei crede a Putin o all’intelligence statunitense?”), Trump aveva risposto: “Ho grande fiducia nella mia intelligence”, ma Putin “è stato estremamente deciso e potente nel negare” l’ingerenza russa. “Ho fiducia in entrambe le parti”. Frasi che hanno scioccato l’opinione pubblica e l’establishment americani, innescando una lunghissima serie di dichiarazioni critiche provenienti tanto dal fronte democratico, quanto da quello repubblicano (sia alla Camera sia al Senato).
Trump fu costretto subito dopo a ritrattare, dicendo di essere stato frainteso e che mai aveva pensato di collaborare con Mosca. Ma il fuoco delle critiche contro la Casa Bianca – tra le quali quelle senza sconti di Brennan – era già partito.