Diciamo la verità, dopo la fiammata di maggio, lo spread aveva smesso di togliere il sonno alla politica non gialloverde, salvo qualche sporadico allarme lanciato di tanto in tanto. Dai giorni caldi di due mesi fa, quando i contenuti del contratto legastellato avevano suonato la sveglia agli investitori, il differenziale Btp-Bund è stato visto come un cane messo finalmente a cuccia. E invece no.
Da ieri il termomentro della fiducia nel sistema Paese (più sale lo spread più è altro il rendimento da promettere a chi ci compra il debito, dunque è più oneroso lo sforzo per convincerlo a sottoscrivere titoli), è tornato a salire: 250 punti base ieri pomeriggio, 270 questa mattina alle 9, 258 in queste ore. In aggiunta, pressione anche sui Btp a breve scadenza con il tasso del titolo a due anni che ha segnato un rialzo di 29 punti base volando fino all’1,27%, un livello che non si vedeva da inizio giugno, per poi ripiegare attorno all’1,15%. Fosse tutto qui, la si potrebbe risolvere pensando che si tratti di una semplice fase di tensione o poco più. Ma anche stavolta le cose non stanno proprio così.
Lo dice per esempio Goldman Sachs, tra le maggiori banche del mondo, che ha appena stilato un rapporto in cui afferma chiaro e tondo che da maggio ad oggi i 100 punti base di spread accumulati hanno cancellato l’enorme lavoro delle banche italiane nel primo semestre sotto due profili: da un lato tagliando le gambe al Cet 1 ratio, l’indice di solidità patrimoniale, dall’altro frenando molto la raccolta dei fondi comuni. Se si pensa solo alla raccolta dei Pir, i piani individuali di risparmio gestiti dagli istituti, lo scorso anno era stata di 10 miliardi di euro, mentre a giugno era ferma alla metà, 2,5 miliardi nei primi sei mesi. A livello generale, il saldi dei fondi comuni a giugno è stato positivo per 9,32 miliardi contro i 56,9 miliardi dello scorso anno.
Non finisce qui. La prima banca italiana, Intesa SanPaolo, ha annunciato ieri che l’aumento dello spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi di queste settimane ha pesato sui conti del gruppo nel primo semestre, andando ad erodere il suo capitale di prima qualità (Core Tier 1) di 35 punti base. La prima assicurazione italiana, Generali, ha addirittura comunicato di aver registrato un abbattimento del patrimonio di 1,33 miliardi di euro a causa dello stesso motivo: l’aumento dello spread.
E anche istituzioni più piccole, come Fineco Bank nel mondo creditizio e Sara in quello assicurativo, hanno indicato in questi giorni effetti simili sui conti semestrali. Infine, presentando i conti, questa mattina il ceo di Mps (banca controllata dallo Stato), Marco Morelli ha spiegato come “il secondo trimestre è stato influenzato dall’ampliamento dello spread. Ci sono elementi che possiamo controllare e altri a cui dobbiamo adattarci”.
Sul piano più politico, Renato Brunetta ha fatto notare come “la situazione sui mercati finanziari continua a peggiorare di ora in ora, con lo spread che questa mattina ha toccato i 260 punti base e il rendimento sui Btp decennali che è arrivato oltre quota 3,1%. La causa di questa salita che sembra non conoscere fine, dipende, secondo tutti gli analisti, dalla crisi di fiducia crescente dei mercati nei confronti del governo Conte e dall’ormai imminente fine del programma di acquisto di titoli di Stato della Bce”.
Tutto questo per dire una cosa: che la sostanza, da qualunque parte la si voglia vedere, non cambia. Lo spread, anche se non si impenna, sta facendo i suoi danni tra le grandi istituzioni finanziarie. Che, vedendo eroso il loro coerfficiente di solidità, non solo sono più esposti e vulnerabili ai venti sui mercati ma debbono anche necessariamente rivedere i propri investimenti, per spostare risorse laddove lo spread ha creato dei buchi di patrimonio.
Allora chissà che Matteo Salvini, nel parlare questa mattina ai microfoni di Sky Tg 24 di “manovra economica d’autunno che non avrà tutto subito, però i primi passi di flat tax, di smontaggio della legge Fornero di stralcio delle cartelle di Equitalia, questo ci sarà”, non abbia dato un primo vero segnale. Non si può fare tutto e subito perché si rischia di rimanere scottati. E soprattutto non si possono mettere a repentaglio i conti pubblici nel nome di misure che andrebbero attuate con gradualità.
I mercati, si sa, non amano le rivoluzioni, figuariamoci quelle troppo veloci. E forse lo stanno già facendo capire. Lo sa bene il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, garante supremo dei conti italiani, che stretto sempre più (qui l’approfondimento di ieri) tra i parametri europei e le voglie gialloverdi, sta provando a destreggiarsi con abilità.