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Tutti in Cina. Tria e Geraci arrivano (separati) a Shanghai

Continua la missione del governo gialloblu in Cina. Questa volta è il turno di Michele Geraci (nella foto), sottosegretario al Mise con una lunga esperienza accademica e professionale nel dragone che è stato messo a capo di una task force speciale del ministero per attrarre investimenti dall’ex Celeste Impero. Geraci ha raggiunto a Shanghai il ministro dell’economia Giovanni Tria, oggi al quarto giorno di visita, ma le due missioni resteranno rette parallele. Il titolare di via XX settembre è accompagnato da una nutrita delegazione di imprenditori e banchieri che ha già firmato diversi memoranda of understanding  e ha come obiettivo non ufficiale quello di tornare a casa con qualche rassicurazione dal governo di Xi sull’acquisto di debito pubblico italiano. Il viaggio di Geraci, che nei prossimi giorni proseguirà a Pechino, è invece tutto incentrato sulla promozione del Made in Italy. L’obiettivo, ha spiegato il sottosegretario al Sole 24 Ore, è anzitutto riequilibrare la bilancia commerciale: “oggi vendiamo in Cina per circa 15-16 miliardi di dollari e importiamo per 32. Sarei contento se riuscissimo addirittura ad aumentare l’import ma dobbiamo e possiamo raddoppiare l’export”. Ma i dossier nella valigetta di Geraci, definito da Avvenire “un ambasciatore del governo cinese”, spaziano ben oltre il deficit.

I DOSSIER

Infrastrutture, porti, digitale, Alitalia. Tanti i temi in ballo per la visita del sottosegretario in Cina. La stella cometa, ha assicurato lui più volte, è evitare di vendere con troppa leggerezza gli asset strategici. È già successo in passato (nel 2014 fece discutere la vendita del 35% di Cdp Reti alla cinese State Grid International Development), sta succedendo a tanti altri Paesi europei (un caso su tutti: la vendita ai cinesi di Medea della tedesca Kuka Robotics, pilastro dell’automazione made in Germany). Per questo motivo la task force di Geraci è in cerca di un’acquirente per Alitalia che rilevi una quota non superiore al 49%, perché il governo vuole tenere per sé la maggioranza della compagnia di bandiera. Stessa linea per la vendita del porto di Trieste, che i cinesi considerano un hub fondamentale nell’Adriatico e un possibile terminale della Via della Seta marittima che nascerà con il piano One Belt One Road (Obor). “La Cina cerca un porto nell’Adriatico del Nord, per raggiungere l’Europa con le sue merci: il più a Nord possibile, perché muoversi per via d’acqua costa meno che muoversi per via terra” – ha spiegato Geraci in un’intervista al Corriere – “Trieste sarebbe la soluzione migliore: investimenti cinesi per ampliarne la capacità, anche logistica”. Il porto friuliano gode di una posizione strategica che, grazie agli investimenti hi-tech dei cinesi, può mettere in secondo piano perfino un porto delle dimensioni di Rotterdam. Un’occasione ghiotta, che però, lo abbiamo ricordato su queste colonne, presenta diversi rischi, non solo economici. Quanto alla promozione del brand italiano, un ferro che Geraci ha intenzione di battere in Cina è quello della distribuzione digitale, magari facilitando una partnership fra il gigante Alibaba e le pmi italiane tagliate fuori dalla grande distribuzione. Il sottosegretario ha già in programma una serie di incontri con la comunità imprenditoriale italiana, con un focus speciale sul settore agroalimentare. La visita in corso non sarà però risolutiva. Geraci è sicuro di farne “altre due o tre forse già entro l’anno”.

UN BILANCIO PROVVISORIO

Mentre Tria dà inizio alla sua visita a Shanghai e Geraci atterra nel dragone si può già abbozzare un primo bilancio della missione italiana. Di accordo vero e proprio al momento si può parlare solo per quello siglato fra Cassa Depositi e Prestiti e Bank of China, assieme all’Istituto Nazionale di Promozione italiano per finanziare progetti infrastrutturali eco-friendly e supportare l’export tricolore. Per il resto si tratta per lo più di memorandum d’intesa. Uno è stato siglato fra Fincantieri e China State Ship Building Corporation, un altro ancora fra Snam e la già citata State Grid International Development. Accordi tutt’altro che indifferenti, che però devono essere ridimensionati se paragonati a quelli siglati nel 2014 con la visita cinese dell’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, preludio a una febbrile stagione di investimenti cinesi negli asset del Paese. Ieri Tria ha incontrato i vertici finanziari di Pechino per parlare del ruolo italiano nell’iniziativa Belt and Road. Fra gli incontri di rilievo quello con Wang Yanzhi, direttore esecutivo del Silk Road Fund, braccio finanziario dell’iniziativa, Tian Guoli, presidente di China Construction Bank, il secondo polo bancario cinese, e il presidente del fondo sovrano China Investment Corporation, Tu Guangshao, cui Tria ha voluto presentare l’Italia come “sbocco naturale” della Via della Seta. Un annuncio di peso è giunto invece ieri da Pechino: Bankitalia, ha annunciato il vicedirettore Fabio Panetta, “nell’ambito della gestione delle proprie riserve valutarie ha deciso di costituire un portafoglio in renminbi, i cui investimenti riguarderanno principalmente titoli di Stato cinesi”. La scelta di investire nello yuan cinese, spiega la nota di Palazzo Koch, “riflette l’accresciuto ruolo del renminbi come valuta internazionale, testimoniato anche dal suo inserimento nel paniere delle valute di riserva del Fondo Monetario Internazionale nel 2016, e l’importanza della Cina quale partner commerciale del nostro Paese”. L’Italia porge una mano a Pechino per rilanciare l’internazionalizzazione della sua valuta nazionale. I prossimi giorni diranno se il governo cinese vorrà ricambiare il favore acquistando debito italiano.


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