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La nuova via della Seta? Non è una debt trap. Parola del governo cinese

xi jinping

E se la Belt and Road Initiative fosse una trappola per il debito sovrano dei Paesi aderenti? È un timore che comincia a serpeggiare fra gli Stati di transito della nuova via della Seta terrestre e marittima con cui la Cina vuole unire Eurasia e Africa. Pechino non ci sta e risponde a tono. “Non c’è nessuna trappola per il debito” – ha chiosato Ning Jihze, vicedirettore dell’Agenzia per la pianificazione del governo, durante una conferenza stampa dello State Council Information Office (Scio), il ministero che presiede alla propaganda e alla censura – “La vita delle persone e lo sviluppo economico sono stati migliorati”. Seduti con lui nella sala del grigio edificio ex sovietico situato al centro di Pechino il viceministro degli Esteri Zhang Jun e il viceministro del Commercio Qian Keming. La conferenza stampa è stata convocata per fare il punto dopo cinque anni dal lancio del progetto. E servire ad arginare il crescente criticismo nei confronti di quella che è diventata la bandiera della politica estera di Xi Jinping. Un piano di investimenti lanciato dall’ex governatore del Fujan nel 2013, quando è stato eletto presidente, e che fin dall’inizio ha suscitato speranze e dure reazioni dei Paesi di transito della nuova via della Seta.

Qualcosa però non sta andando per il verso giusto. Il governo cinese aveva promesso di cercare investitori stranieri pronti a supportare il piano infrastrutturale. Un proposito rinnovato oggi in conferenza stampa che però non ha trovato i riscontri sperati. Delle centinaia di progetti avviati, ferrovie, impianti elettrici, porti e ponti, sono pochi quelli finanziati da investitori non cinesi. Il resto è rimasto tutto in mano al dragone. Alcuni dei governi che avevano inizialmente avviato una partnership con Pechino per i progetti infrastrutturali hanno poi fatto marcia indietro. È il caso di Thailandia, Sri Lanka, Nepal e Tanzania. Troppo costosi i progetti per le finanze di questi Stati, troppo pochi i lavoratori locali impiegati dalle ditte cinesi. L’ultima tegola caduta sul piano di Xi, che in fondo è la causa del punto stampa allo Scio, arriva da un Paese piccolo ma cruciale per la One Belt One Road: la Malesia. Il primo ministro Mahathir Mohamad ha annullato decine di progetti avviati con il governo cinese, compresa un’autostrada da 20 miliardi di dollari. Il dubbio, condiviso da altri governi asiatici, è che il prezzo da pagare sia troppo alto. Consegnare il debito sovrano nelle mani del dragone può avere costi politici irreversibili. Lo ricorda bene lo Sri Lanka, che solo un anno fa, non essendo riuscita a ripagare a Pechino un prestito da 1.5 miliardi di dollari, ha dovuto vendere a una compagnia statale cinese il porto di Hambantota.

Gli alti funzionari del governo di Xi hanno glissato sugli ultimi sviluppi, limitandosi a parlare di cooperazione win-win, un mantra tutto cinese. “Le infrastrutture fisiche giocheranno un ruolo nel lungo periodo” – ha detto il viceministro Jun – “non necessariamente vediamo un ritorno nel breve termine”. Poi l’annuncio di un nuovo comitato internazionale di esperti per sbloccare l’empasse. Sarà un organo consultivo, composto da accademici, addetti ai lavori e politici, compresi ex alti funzionari del Partito Comunista Cinese. Basterà? I cinesi sono fiduciosi. Per fugare ogni critica sul presunto disegno politico sotteso al piano infrastrutturale, il viceministro Keming ha auspicato “la partecipazione dei Paesi sviluppati e delle organizzazioni internazionali per migliorare la trasparenza e garantire progetti di alta qualità”.

Che l’Asia centrale abbia urgente bisogno di infrastrutture è fuor di dubbio. Secondo una stima dell’Asian Development Bank l’intera regione interessata dal progetto cinese avrebbe bisogno di 26 triliardi di dollari in investimenti nelle infrastrutture per continuare a crescere. Stati Uniti e Giappone sono stati fra i primi a mettere in dubbio l’effettiva ratio economica del progetto di Xi, denunciando un piano di influenza politica di Pechino volto a diminuire, quando non scavalcare del tutto, la presenza americana in Eurasia. Alle critiche si era presto aggiunta l’India di Narendra Modi, preoccupata dalla costruzione del corridoio del Karakorum, un tratto di autostrada che unirebbe la Cina al Pakistan attraversando territori storicamente contesi fra i governi di Islamabad e Nuova Dehli.



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