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Dal Niger la lotta alle migrazioni verso l’Europa. Il reportage del Nyt

Il New York Times ha pubblicato un articolo dal Niger curato dal fotoreporter Joe Penney – che ha speso praticamente una vita in Nord Africa – in cui si racconta lo sforzo di Niamey per contenere il flusso di profughi che usano le difficili rotte nigerine per arrivare in Libia, attraversarla e prendere il largo del Mediterraneo verso l’Europa.

I media americani sono interessati al Niger perché dal 3 ottobre dello scorso anno, quando quattro Berretti Verdi rimasero uccisi in un’imboscata, hanno scoperto il coinvolgimento statunitense nel Paese. La vicenda fu piuttosto tragica, affrontata con gli ormai soliti pasticci comunicativi dalla Casa Bianca – e fu una delle varie occasioni di scontro tra il senatore John McCain e l’attuale presidenza. Uno dei soldati fu rapito (forse già morto) dagli uomini che attaccarono il convoglio: erano miliziani affiliati allo Stato islamico, le immagini del soldato furono usate mesi dopo in un video propagandistico del Califfato.

Agli europei quello che accade in quelle zone dovrebbe interessare, perché in mezzo a gruppi vicini all’Is e ad altri del network qaedista, ci sono i trafficanti di uomini (a volte mescolati o collusi) che mandano i profughi verso il Mediterraneo e dunque verso l’Europa. Per gli italiani l’interessamento dovrebbe essere ancora maggiore, visto che il governo Gentiloni aveva varato una missione volta all’addestramento delle truppe locali e alla presenza sul terreno per combattere il traffico di esseri umani – missione confermata anche dall’attuale governo giallo-verde, nonostante da Parigi, che ha pure una presenza sul campo, storcano il naso.

In Niger si combatte l’immigrazione in un punto intermedio: i profughi non sono nigerini, ma vengono dall’Africa profonda – per esempio dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria dalla Somalia, dall’Eritrea – affidandosi ai trafficanti locali per ottenere un passaggio in mezzo ai chilometri di dune sahariane che li dividono dalla Libia. Lì troveranno il punto si sbocco di questa pipeline umana sul Mediterraneo e inizieranno l’ultimo pezzo di questo viaggio atroce che dovrebbe portarli a vivere nel comfort politico, sociale, economico dei paesi europei.

Il territorio è impervio: Niamey dà turni mensili ai soldati, il caldo è sfiancante, le condizioni tremende. Ogni turno costa almeno un cambio completo di tutte le gomme degli automezzi militari: più il carburante e altri tipi di usura. I trafficanti sono armati, e c’è anche il rischio umano-militare. L’Europa paga i costi, il Niger non potrebbe permetterseli: um miliardo stanziato lo scorso anno per piani di sviluppo da qui al 2020, in più Germania, Francia e Italia danno finanziamenti diretti.

I soldi al Niger sono parte della strategia europea con cui si è deciso anche di finanziare il contenimento che la Turchia dovrebbe garantire sulla rotta balcanica; oppure il Sudan. Piani controversi: il Nyt ricorda che come in Libia il piano italiano pensato dall’ex ministro Marco Minniti ha subito denunce e accuse di finanziare le milizie per contenere i flussi migratori, in Niger toccano alla Francia attacchi simili, riguardo a tribù che vivono nel basso Fezzan, la regione della Libia in cui i confini nigerini si perdono tra la sabbia del deserto.

I francesi coordinano dalla base nord-nigerina di Madama una partnership con la tribù libica Tubu, con l’obiettivo di usare il gruppo per aiutare a fermare i trafficanti: ma il governo del Niger è super-irritato, perché la milizia è guidata da un ex ribelle nigeriano, Barka Sidimi, che è considerato un grosso rischio per la sicurezza da parte dei funzionari del paese. È il primo esempio per cui a Niamey gli aiuti europei vengono visti con diffidenza, perché mirati a preservare bruscamente il controllo dell’immigrazione senza tener troppo conto della complicata stabilità del Niger.

Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per la migrazione (Iom), dal 2015, quando il Niger ha iniziato a lavorare sull’immigrazione, i flussi verso la Libia si sono ridotti da 5/7mila a settimana a mille. Ma questa inversione – con i bus contrattualizzati dal governo che prima portavano i migranti verso il nord, ad Agadez, e da lì in Libia, invece adesso tornano verso gli stati di partenza – si porta dietro condizioni complesse.

I trafficanti seguono rotte più impervie per evitare il controllo dei soldati, spesso abbandonano le persone nel deserto se pensano di essere scoperti o seguiti: diminuisce il valore dei flussi, ma aumenta quello delle morti per disidratazione. Ogni settimana, l’Iom manda squadre di soccorso: Adam Kamassi, il direttore dell’agenzia, ha detto al Nyt che i suoi uomini di solito salvano dalle venti alle cinquanta persone ogni volta che escono, e che in quelle missioni trovano quasi sempre tre o quattro corpi.

Per il Niger, la chiusura delle rotte migratorie da parte del governo ha causato anche un aumento della disoccupazione e un aumento di altre attività criminali come il contrabbando di droga e la rapina, secondo un documento analitico redatto dall’intelligence militare nigeriana. Esempio di come la questione sia articolata: la complessità del fenomeno sta per esempio nelle dichiarazioni degli abitanti raccolte dal giornalista statunitense, in cui si parla dalla criminalità del traffico di persone come di un’attività lavorativa messa in crisi dalla stretta governativa, da dover gestire con ammortizzatori: una situazione assurda ma reale.

Il documento dell’intelligence ha anche osservato che dal momento della repressione, le città lungo la rotta dei migranti stanno facendo fatica a pagare per servizi essenziali, come scuole e cliniche mediche, che si sono basati sul denaro proveniente dalla migrazione e dalle industrie che lo alimentano. Città come Dirkou, punto di passaggio obbligato delle vecchie rotte, sono state messe in crisi dalla diminuzione dei traffici.

In più c’è l’immigrazione interna: non tutti i migranti respinti vengono riportati nei rispettivi paesi. Alcuni restano in Niger per cercare qualche genere di lavoro, anche i peggiori. Altri aspetto e cercano strade alternative; eritrei, etiopi e somali provano a sfruttare il nuovo programma con cui la Francia prende in considerazione anche domande come rifugiato direttamente dal Niger.

 

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