Vi sono autori in attesa, aspettano che il treno della memoria passi davanti a loro e li faccia salire dopo aver a lungo sostato nelle stazioni della storia. Di tanto in tanto viaggiatori solerti si accorgono che stanno lì, accanto a qualche binario, e avvertono il bisogno di segnalarne la presenza. Accade sempre più spesso da qualche tempo. L’ultimo intellettuale – dimenticato da troppo tempo, prescindendo da poche note sparse qua e là in libri di nicchia – è un sindacalista rivoluzionario, Angelo Oliviero Olivetti (1874-1931), a cui ha teso la mano la giovane studiosa Ada Fichera, già segnalatasi per una recente biografia politica di Pirandello che ha suscitato discussioni e ottenuto la meritata attenzione, con una breve, ma intensa biografia che ce lo restituisce come capofila di un movimento di pensiero purtroppo trascurato dalle valenze comunque sorprendentemente attuali.
Angelo Oliviero Olivetti (Fergen, pp.95, €10,00) è un saggio che si legge tutto d’un fiato, come fosse un romanzo, il cui protagonista è un attivista, ma anche un pensatore, un rivoluzionario e un giornalista, un visionario per il quale, non diversamente da altri protagonisti della politica e della cultura degli inizi del Novecento, come Corridoni, De Ambris, Panunzio, la “guerra nazionale diviene azione rivoluzionaria di massa”, osserva Fichera, la quale sottolinea pure come Olivetti riconosca “nel trauma epocale una rottura e un’apertura di nuovi e ulteriori spazi di rovesciamento”. Tanto basta perché il sindacalista ravennate che contribuì a svecchiare il socialismo, a depurarlo dalle incrostazioni marxiste, a ripulirlo dal riformismo asservito alle classi dominanti e a dare alle masse lavoratrici la consapevolezza di una missione storica che si poteva e doveva concretizzare nel riconoscimento della nazione come patria comune, oggi risulti più attuale di quanto di immagini. L’universalismo socialista del suo tempo e il globalismo odierno sono leggibili alla stessa maniera: strumenti di attacco alle identità che declinate in maniera ovviamente diversa nutrivano e nutrono le aspirazioni alla difesa delle specificità. In questo senso Fichera dice che il sindacalismo olivettiano è al contempo strumento rivoluzionario e conservatore di identità. Una definizione brillante, ma anche vagamente lirica come è stato quel “sentimento” della vita e del tempo che s’intitola appunto appunto al sindacalismo rivoluzionario.
“Questo (il sindacalismo, n.d.r.) è uno stato d’animo più che una dottrina, una maniera di sensibilità sociale che tende a tradursi in volontà operante”. Così Olivetti sintetizzava nella sua rivista “Pagine Libere”, il 1° luglio 1909, il proprio personalissimo punto di vista sul sindacalismo, svelando nel contempo, una verità ancora non accettata, ma che non avrebbe tardato a farsi strada: il carattere essenzialmente elitario del sindacalismo rivoluzionario.
Nello stesso articolo aggiungeva: “Aristocrazia? E perché no? Ma aristocrazia non proclamata da leggi o sdraiata sul possesso di ricchezza materiali; ma vera aristocrazia di sangue e di nervi aperta a tutti i forti; non aristocrazia del blasone, o del forziere, ma invece un’accolta dei più sensibili incontro alle sofferenze dell’ambiente, e dei più volitivi. Quindi élite schiettamente umana, perché composta di coloro che assommano nel cuore e nel cervello più umanità”.
Il suo sindacalismo, osserva Fichera, rimane dunque “fortemente aristocratico” ed anche “élitario”, non meno che “estetizzante” come lo fu, per esempio, in Corridoni. Una concezione dell’esistenza, insomma, prima che una dottrina politica e questo aspetto rimane certamente il più fascinoso dell’elaborazione teorica di Olivetti che fu incontestabilmente uno dei vertici teorici, unitamente ad Arturo Labriola ed Enrico Leone, che schiuse al movimento le ragioni storiche del suo esistere nell’ambito più vasto (per poi uscirne definitivamente) del socialismo italiano sempre meno adeguato a rappresentare le reali istanze della classe operaia. La polemica di Olivetti, tuttavia, più che contro il riformismo e le degenerazioni parlamentaristiche del socialismo fu rivolta contro lo “spirito del tempo”, segnando le linee di una inquietudine esistenziale ed intellettuale i cui esiti sarebbero stati anche “politici”.
La sua fu una reazione non soltanto “visione del mondo e della vita” contrapposta alle insufficienze del liberalismo e del socialismo nel comprendere l’epoca nuova e le ragioni dei nuovi soggetti sociali che massicciamente s’affacciavano sulla scena politica.
Olivetti è da annoverare nel solco di quella corrente rivoluzionario-conservatrice, forma e sostanza dell’ideologia italiana, che prepotentemente emerge dalle nebbie degli apriorismi e degli schematismi scolastici con i quali troppo spesso si vuole ammantare l’inquieto Novecento ideologico. La dottrina politica che Olivetti reclamava a fondamento della prassi rivoluzionaria del movimento operaio ebbe modo di delinearla sulla rivista “Pagine Libere”, fondata il 15 dicembre1906, portata avanti con alterne vicende fino al 1922, cui diedero il loro intelligente apporto, tra gli altri, Arturo Labriola e Paolo Orano come condirettori, e, tra gli altri, Francesco Chiesa, Guido Gozzano, Virgilio Brocchi, Alceste De Ambris, Benito Mussolini, Sergio Panunzio, Mario Missiroli. Su quella che indiscutibilmente fu la più autorevole rivista del sindacalismo rivoluzionario, ebbe modo il socialismo aristocratico, mutuato soprattutto da Sorel, di raccordarsi alle istanze nazionali. “Il sindacalismo come il nazionalismo – osservò Olivetti – riaffermano una originalità frammezzo all’onda dirompente della mediocrità universale: quello la originalità di una classe che tende a sprigionarsi ed a superare, questo amoroso di far rivivere il fatto ed il sentimento nazionale, inteso come originalità di una stirpe, come affermazione di una personalità collettiva, con caratteristiche note culturali sentimentali, con un istinto proprio e differente”.
Da qui le conclusioni cui pervenne l’Olivetti che concepì tanto il sindacalismo quanto il nazionalismo accomunati nel “culto dell’eroico”, uniche concezioni politiche agitanti le profondità di un “mito”: il primo quello dello sciopero generale e della rivoluzione sociale, il secondo la supremazia della stirpe e la rivendicazione dell’identità culturale.
Ancora una volta, in Olivetti, affiorano i caratteri dell’ideologia italiana che compiutamente si sarebbero poi materializzati nell’evento rivoluzionario per eccellenza del Novecento: la prima guerra mondiale.
La strada di Olivetti, dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo fu lunga e toccò tutte le stazioni che segnarono il percorso dell’Italia nuova. Nel 1912 fu per l’impresa libica; nel 1914-15 fu per l’intervento; nel 1921 fu tra gli esponenti dell’Unione Italiana del Lavoro di ispirazione corridoniana; nel 1924 aderì al fascismo e venne chiamato a far parte della “Commissione dei XV”; nel 1925 fu membro della “Commissione dei XVIII”; insegnò in quell’autentico laboratorio di idee che fu la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Perugina.
In Olivetti non soltanto la dottrina del sindacalismo rivoluzionario ma anche quella nazionalista e fascista ebbero un teorico particolarmente originale, capace di analizzare i problemi del suo tempo in un vasto e globale contesto rigettando, di conseguenza, il particolarismo settoriale.
La visione politica di Olivetti, lungi dall’essere totalmente datata, richiama oggi il grande tema della partecipazione al progetto nazionale di tutte le componenti della comunità: “La classe non sta contro la patria, ma entro la patria. Se la classe annulla la patria compie opera stolta e parricida, perché nel vasto brigantaggio del mondo una tale opera non può che essere di profitto alla patria degli altri”. Non è poco.