Quando, nell’ottobre dello scorso anno, Franco Cangini ci lasciò, non mi sorprese apprendere la sua unica disposizione “testamentaria”: essere vestito con la camicia nera. La rivelazione del figlio Andrea, affettuosamente fedele nell’esaudire il desiderio del padre, scosse molti che conoscevano il grande giornalista come un “moderato”, un liberale, un galantuomo. Ma tutte queste qualità non contraddicevano lo spirito di fondo che lo ha accompagnato in tutta la sua intensa vita. “Mi piace pensare che l’ultima immagine di me sia come la prima: vestito con la stessa camicia che ha dato senso ai miei sogni”, lasciò scritto. Ed è questa la chiave che apre l’apparente enigma in chi lo frequentò a lungo, l’apprezzo come giornalista, direttore, analista politico tra i più lucidi del dopoguerra.
Com’era possibile che un uomo così stimato da chiunque abbia voluto testimoniare il suo “sogno” in maniera tanto forte, sconvolgente per alcuni? L’anima di Cangini era limpida come acqua di fonte. La sua intelligenza gli ha impedito di proclamare inutilmente la sua nostalgia cercando di tenerla a riparo, come i sentimenti più profondi, dalle possibili profanazioni. Ed il giornalismo che ha praticato mai una volta è stato condizionato da quel pathos della lontananza che volle tenere tutto per sé.
La distanza da un mondo che era stato il suo e che coincideva con una certa idea della Patria e dello Stato: quel mondo non ha mai voluto “usarlo”, né contrabbandarlo per fini opportunistici. Lui, come altri, ha coltivato in solitudine la “nobiltà della sconfitta” ed il suo desiderio estremo l’ha sublimata al punto di raccogliere davanti ad essa chi, provenendo da altri lidi, non ha potuto che fare lo sforzo di capire il gesto ed apprezzarlo.
Il figlio, Andrea Cangini, giornalista degno di suo padre, direttore del “Quotidiano nazionale” fino al gennaio scorso, oggi senatore della Repubblica eletto nelle liste di Forza Italia, dando notizia della morte di Franco sul suo giornale volle rendergli un omaggio tutt’altro che retorico (non sarebbe piaciuto al genitore), valorizzando quella singolare disposizione testamentaria nel solo modo possibile ed intellettualmente onesto: innescare una discussione sulla morte della Patria tra uomini di diverse tendenze accomunati dalla stima verso Cangini. Il dibattito, interessante e vivace, sarebbe stato un peccato disperderlo nelle pagine di un giornale; gli interventi, infatti, sono stati raccolti in un prezioso volumetto, curato ovviamente da Andrea, al quale è stato dato un titolo forte e significativo: La camicia nera di mio padre (Minerva, pp.86,€ 6,90). È un libro che chiunque, soprattutto di questi tempi, dovrebbe leggere: non c’è una riga che non sia stata stata meditata, non una critica men che ragionevole, non l’espressione di una simpatia altrettanto motivata. E compendia, soprattutto, una grande riflessione sulla “morte della Patria” (per come Salvatore Satta l’aveva codificata in un suo celeberrimo romanzo) dalla quale non si può prescindere volendo soltanto immaginarne la ricostruzione o, come qualcuno giustamente dice, la sua “riconquista”.
Franco Cangini, pur senza farsi eccessive illusioni, amava credere che un giorno avrebbe davvero visto gli italiani pacificati e riconciliati con le loro storie. Non si illudeva che una memoria potesse davvero essere condivisa, ma realisticamente pensava che diverse memorie potessero convivere con dignità l’una accanto all’altra. E intanto raccontava l’Italia che aveva sotto gli occhi senza mai dare la sensazione di volerla velleitariamente cambiare con i suoi scritti. Piuttosto si limitava ad interpretarla, ed era già tanto. Oppure ad immaginare vie d’uscita da una crisi istituzionale che si trascina ancora oggi con strumenti di persuasione culturale come la rivista “Gli Stati” che diresse insieme a Giorgio Torchia agli inizi degli Settanta: l’obiettivo era quello di sensibilizzare le classi dirigenti innanzitutto a riprendere la strada della ricostruzione dello Stato e a ristabilirne l’autorità. Vasto programma, direbbe ancora oggi qualcuno, ma Franco ci credeva e forse quello era il solo “sogno” che pubblicamente rivelava, peraltro condiviso trasversalmente da politici ed intellettuali di grande valore e dalla diversa sensibilità istituzionale.
Ricordo anche le sue analisi politiche, mai disgiunte da incoraggianti segnali “riformisti”, sulla rivista “Percorsi” che facevo alla fine degli anni Novanta a cui lui diede lustro senza mai chiedere nulla: gliene sono ancora grato ed intendo qui disobbligarmi pubblicamente per essermi stato vicino in quell’avventura “conservatrice” che forse un poco lo intrigava facendolo uscire dalla routine professionale quotidiana. Ma di fascismo, neppure con me ne parlava se non per valutare storicamente qualche pubblicazione ed io ben conoscendo la sua riservatezza, mai mi avventurai a spingerlo oltre rispetto a quanto riteneva di manifestare. Mi erano familiari i suoi sentimenti e sapevo leggere anche il non detto tra le frasi che lasciava cadere nei nostri incontri soprattutto in Transatlantico.
Andrea ha risolto il “mistero” di Franco una volta per tutte: “Nell’era della globalizzazione e della massificazione totale, coltivare il ricordo e in fondo, e nonostante tutto, il mito del fascismo ha il sapore di un atto di ribellione e al tempo stesso di una denuncia. Un ‘passare al bosco’, per dirla con le parole di Ernst Jünger. Ma quello di mio padre fu un passare la bosco, ovvero una ribellione, sordo e muto. Non evidente, non esibito, men che meno ostentato. E sempre praticato nel ferreo rispetto delle leggi dello Stato. Lo Stato che c’è”. Dunque, Franco era “apparentemente integrato, eppure profondamente disadattato”. Una dissociazione? Neppure per idea. Un modo di essere che aveva scelto e praticava con coerenza ben sapendo che il sogno l’avrebbe sostenuto, mentre il principio di legalità al quale aderiva non contraddiceva ciò che nella sua coscienza era e restava vivo: il sentimento di lealtà verso la propria comunità.
Le pagine di Andrea sono lucide e commoventi al tempo stesso. L’amore filiale verso un grande padre non confligge con la fredda disamina di un atteggiamento umano e civile esemplare comunque la si pensi. Ed in questo modo è stato recepito l’invito a scrivere di Franco, ma più latamente del suo “desiderio” esaudito unitamente alla riflessione sulla Patria disfatta da chi lo ha apprezzato anche quando non ne ha condiviso i punti di vista. Augusto Barbera, Pierluigi Battista, Franco Cardini, Antonio Faeti, Marco Follini, Ernesto Galli Della Loggia, Roberto Gervaso, Claudio Martelli, Francesco Perfetti, Walter Veltroni, Marcello Veneziani, Luciano Violante s’interrogano su quel desiderio e su quell’uomo, ma insieme cercano di capire perché sull’Italia grava il ben triste destino di una vicenda che non passa e blocca qualsiasi disegno di modernizzazione del Paese che avrebbe bisogno di ritrovarsi con le sue molte memorie da non esibire come anacronistiche bandiere di guerra, ma quali prove di fratture ricomposte con il mastice di una cultura impastata di tolleranza e sofferenti ammissioni.
Fino a quando resterà nascosto nelle fibre della società italiana, eppure tragicamente ben presente, il passato non può passare. Lo sapeva Franco Cangini e negli ultimi anni della sua vita preferì distaccarsi completamente da tutto, rifugiandosi nella sua casa nella campagna toscana. Il passaggio al bosco l’aveva completato. Gli restavano a fargli compagnia la pietà per la sua Italia e quel sogno che fin da quando era bambino non l’aveva mai abbandonato: lasciare la vita terrena con la sola camicia che idealmente aveva indossato, la sua camicia nera.