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L’Italia e il soft power. La ricetta per farci valere nel mondo

Nell’era del sovranismo al potere nei media si sente parlare poco di soft power. Il “potere discreto” della cultura e dell’attrazione pacifica all’estero teorizzato per la prima volta negli anni ’90 dal politologo di Harvard Joseph Nye non fa notizia come il via libera a un intervento militare o a un accordo commerciale con un Paese straniero. Eppure l’Italia farebbe bene a ricordarsi che il soft power è lo strumento più incisivo di cui dispone per riscuotere successi all’estero tanto sul piano diplomatico quanto su quello economico. Non di rado sentiamo discutere del “Brand Italia” come un alloro su cui si può riposare, vivendo di rendita per il patrimonio culturale, artistico, accademico dello Stivale. Godere della meritatissima fama di “BelPaese” però non basta per competere al di fuori dei propri confini. Tanto più se le eccellenze italiane si fanno la guerra a vicenda e istituzioni e privati non si parlano. In poche parole per far valere il brand Italia all’estero bisogna “fare sistema”. Come? Una via è stata tracciata questo venerdì alla Link Campus University durante il convegno “Nation Branding & Soft Power, comunicare il “Sistema Italia” all’estero. Introdotti dal presidente della Link Vincenzo Scotti, hanno partecipato al dibattito funzionari del ministero degli Esteri e del Mise, diplomatici e docenti universitari per chiedersi come valorizzare le risorse (scarse) a disposizione per rendere l’Italia attraente nel mondo.

“Spesso si dice che l’Italia è una superpotenza culturale, vorrei vedere” – ha esordito l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente di Ispi e Fincantieri – “Mi ricordo quando Berlusconi elencava musei, chiese, ponti, ecc. Tutto vero, ma l’Italia non è Disneyland. Non mi interessa avere i più bei musei d’Europa se tutto il resto non viene valorizzato”. È un cruccio che affligge chiunque si ritrovi al governo in Italia. Disattendere le altissime aspettative del resto del mondo per l’incapacità di gestire le risorse. Così la “Bella Italia” fatica a scalare le classifiche internazionali del soft power. Soft Power 30, il rating stilato dal gruppo di consulenza Portland e dal Center on Public Diplomacy della University of South Carolina, è forse la più autorevole. Il rapporto pubblicato nel luglio 2018 vede l’Italia scalare in avanti di una posizione: scavalca la Norvegia, passando da tredicesima a dodicesima in classifica. Il Regno Unito svetta al primo posto, seguito dalla Francia di Emmanuel Macron e dalla Germania di Angela Merkel. Medaglia di cartone per gli Stati Uniti di Donald Trump, che fino a pochi anni fa guardavano il resto del mondo dalla vetta. Ora, per quanto contestabili siano i criteri di giudizio di queste classifiche, il messaggio è piuttosto chiaro: non mancano risorse, manca la capacità di usarle. “È tutto inutile senza un’adeguata organizzazione dell’azione pubblica. Non si può creare un accentramento a Roma per dare a un ente pubblico unico il compito di dare impulsi non contraddittori alle reti all’estero” chiosa Massolo, che trae dalla recente storia di Fincantieri, campione italiano nella cantieristica mondiale, un esempio di sinergia perfetta. Una commessa da 25 miliardi in Australia per dotare il Paese di un’autonoma capacità cantieristica nel settore militare. Non è poco per un’azienda italiana. “Fino alla mezzanotte del giorno prima del verdetto l’azienda ha insidiato la concorrenza perché è scattato il sistema-Paese e la sinergia pubblico-privato. Non arrivammo primi, vinse un’azienda britannica. Sospetto che avere una regina in comune con gli australiani abbia avuto la sua parte” ha scherzato l’ambasciatore.

Recentemente il governo Conte ha mosso un passo nella giusta direzione. Il vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio ha continuato a scommettere sulla Cabina di regia per l’Italia internazionale, riunitasi lo scorso 11 settembre al Mise. Obiettivo: lavorare sull’export delle eccellenze italiane, a partire da moda, design, agroalimentare, artigianato. Impossibile farlo senza una mano tesa da parte della Farnesina, che attraverso la rete delle ambasciate e dei consolati all’estero, così come dell’Istituto del Commercio Estero (Ice) e gli istituti culturali italiani, ha i mezzi per veicolare il soft power tricolore. Fra i presenti Vincenzo De Luca, direttore generale per la Promozione del Sistema Paese al ministero degli Affari Esteri. “Dobbiamo fare gioco di squadra, mantenere un approccio sistemico al di là delle contingenze politiche” – ha detto De Luca alla Link – “Un terzo dell’industria del design nel mondo, che vale 100 miliardi di fatturato, è prodotto in Italia. L’industria culturale e creativa italiana pesa 90 miliardi di euro, siamo la seconda industria manifatturiera in Europa, al settimo posto nel mondo per pubblicazioni scientifiche. Il brand Italia, dicono gli esperti, aiuta molto l’export italiano”.

L’export costituisce il 31% del Pil italiano, ma da solo non basta. “Dobbiamo insegnare alle aziende italiane come approcciare l’export, non è un percorso semplice. Ci stiamo lavorando insieme a Sace, Simest e la Farnesina” ha spiegato Fabrizio Lucentini, diplomatico prestato al Mise per guidare la direzione generale per le politiche di internazionalizzazione e la promozione degli scambi. Gli ha fatto eco Carmine America, consigliere per gli affari Internazionali del ministro Di Maio, già corrispondente di Formiche.net negli Stati Uniti: “Il tessuto produttivo italiano è fatto per la maggior parte da pmi e poi da grandi player che devono supportarlo all’estero. Eccellenza è specialità. Ma specialità a volte si traduce in particolarismo e frammentazione, perfino conflittualità”. A quale modello guardare dunque? La diplomazia italiana negli Usa può fare da pivot. La capacità dell’ambasciata e dei consolati di riunire la comunità italoamericana e valorizzare i player italiani nel mercato statunitense è un esempio per il resto del mondo. Ne è sicuro Francesco Maria Talò, responsabile della sicurezza cibernetica della Farnesina, già console generale a New York e ambasciatore italiano in Israele. “L’Italia viaggia molto all’estero con le sue amministrazioni locali e regionali e le imprese, ma non sempre è attrezzata a farlo. Troppo spesso le missioni all’estero si riducono al fenomeno del mordi e fuggi. Nascono così tanti eventi effimeri ma non iniziative, che costituiscono l’inizio di un percorso duraturo”.

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