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Le milizie in Libia ed il loro ruolo politico secondo il report Swp e l’opinione di Varvelli (Ispi)

mosca trump

A giugno, l’analista tedesco Wolfram Lacher, del German Institute for International and Security Affairs (Swp) di Berlino, ha redatto insieme al libico Alaa al Idrissi, che ha lavorato al ministero dell’Interno di Tripoli, un report fondamentale per comprendere la divisione interna alla capitale della Libia: un’analisi su come i vari gruppi armati siano stati in grado di catturare il potere.

“Capital of Militias”, questo il titolo, parte da un’overview basilare: fin dall’arrivo a Tripoli di Fayez Serraj, designato premier dall’Onu per la rappacificazione del Paese, la capitale è stata divisa sotto il controllo territoriale di quattro grandi gruppi armati. Dal marzo del 2016, quando Serraj fu accompagnato anche dalle forze speciali italiane nella base di Abu Setta, poi diventata sede amministrativa del suo tentativo di governo, l’influenza politica di quelle milizie è cresciuta fino a stringere in ricatto le deboli e temporanee istituzioni.

I gruppi di cui parla SWG sono la Rada Force, milizia guidata da Abdel Raouf Kara; la Brigata Nawasi, che difende la base di Abu Setta dove si trova Serraj; la Brigata dei Martiri di Tripoli, comandata dall’ex capitano della polizia Hajtman Tajuri; la Brigata Ghneiwa, che si dà il compito di gestire la sicurezza interna dell’intera città.

Le milizie lavorano in autogestione, ormai si sono infiltrate nella burocrazia, e sono diventate via via più forti nella capacità di coordinare la propria influenza tra le varie istituzioni statali: le loro attività, con cui forniscono protezione a Serraj e un minimo di sostegno e consenso pubblico, sono attualmente pagate dal Consiglio presidenziale libico, attraverso i dicasteri di Interno e Difesa. Serraj è debole davanti al ricatto dei gruppi e non è mai stato in grado di integrarli all’interno di un sistema regolare sotto la sua amministrazione.

La loro esistenza è di fatto un ricatto, che crea scontento anche a Misurata, la città-stato che rappresenta il centro militare più forte di tutta la Libia. I miliziani misuratini della cosiddetta Forza Anti Terrrorismo – guidata dal generale Mohammed Al Zain, non è altro che una delle tante milizie libiche – si sono mossi verso le porte di Tripoli con 300 unità da combattimento (più che altro tecniche, pick up armati) dopo che sono stati chiamati a proprio supporto dal wannabe-premier dell’Onu.

Serraj è attaccato da una milizia, la Settima Brigata, ex gheddafiana e allineata con il rancoroso ex premier tripolino Khalifa Ghwell, che secondo ricostruzioni non ufficiali potrebbe fare anche da quinta colonna dell’opposizione cirenaica del maresciallo di campo Khalifa Haftar, e che ha dichiarato di voler agire in modo indipendente contro “i terroristi del furto”, ossia contro le milizie che sfruttano i proventi del petrolio libico che entrano nelle casse di Serraj per mantenere la propria struttura illegale.

Secondo l’analisi del think tank tedesco, l’Onu e i Paesi occidentali hanno, involontariamente, aiutato queste milizie quando hanno deciso di installare a Tripoli Serraj, forzatamente e in anticipo sulla stabilizzazione necessaria. L’operazione è stata fatta costruendo accordi proprio con quei gruppi armati, chiamati a fornire protezione al premier e aiuto nella ricerca di empatia con i libici. Da lì si sono successivamente sentiti legittimati ad avanzare le proprie pretese.

Queste quattro milizie hanno fatto cartello, e hanno fatto in modo che negli ultimi due anni la sicurezza interna a Tripoli aumentasse sostanzialmente – anche per questo gli scontri di questi giorni sono interessanti, e visto il numero di vittime in controtendenza, e non è un caso se adesso il wannabe-premier si appelli a loro per ricevere aiuto contro la Settima.

Spiega Lacher che la maggiore sicurezza è stata finora percepita in modo assolutamente positivo dai cittadini della capitale, e per tale ragione Serraj, in continua ricerca di consenso, ha avallato quella specie di ricatto a cui i leader miliziani lo hanno costretto.

Lacher parlava del rischio che le milizie lasciate fuori dal cartello delle quattro avrebbero potuto innervosirsi e sentirsi escluse dal giro di interessi (economici e politici) che contano; tra queste milizie nervose, si parlava anche della Settima Brigata. “Sono convinto che sarà determinante osservare il ruolo che svolgeranno alcune milizie importanti come quelle di Zintan e di Misurata per capire se questa offensiva avrà successo”, spiega a Formiche.net Arturo Varvelli, senior fellow dell’Ispi e Co-Head del Middle East and North Africa Centre.

Qual è lo scenario? “Se al cartello di milizie che controlla la capitale e che beneficia dei legami col GNA (il governo di accordo nazionale guidato da Serraj, ndr) se ne opporrà uno alternativo di quelle che controllano zone periferiche e sono escluse dalle varie forme di finanziamento che permette il controllo delle aree centrali (istituzioni, banche, ecc…) allora avremo un conflitto più esteso e violento”.

La vicenda è poi un’ulteriore presa d’atto del fallimento delle trattative internazionali, aggiunge l’analista: “Non è pensabile convocare vertici a Parigi o altrove con quattro rappresentanti politici libici”. “Per prima cosa perché non è un numero rappresentativo, poi perché i politici in Libia non sono rappresentativi, dato che non hanno il controllo del territorio. Prendono decisioni che poi non possono essere mantenute quando rientrano in patria, perché sono le milizie a comandare — fa notare Varvelli — e dovrebbero essere coinvolte direttamente nelle trattative cercando di fargli compiere il passo per trasformarli da attori militari ad attori politici”.


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