Tra gli anni Settanta ed i Novanta del secolo scorso il cinema, più della letteratura e della saggistica sociologica, è riuscito ad esprimere il passaggio tra due epoche – ma si potrebbe dire tra due mondi – che ha segnato e segna il percorso della modernità nella quale siamo immersi in maniera insoddisfatta e drammatica perfino.
Quella stessa insoddisfazione che cineasti di grande valore hanno preconizzato raccontando la crisi dell’Occidente (e non solo), spesso in maniera compiacente, la cui radice è nella svalutazione di tutti i valori tradizionali e nella conseguente caduta di un’idea di civiltà che per oltre un millennio ha dominato in questa parte del mondo, sia pure con differenze non trascurabili nelle varie fasi storiche.
Rivisitando alcuni dei film più significativi prodotti in poco più d’un ventennio cruciale per le generazioni affacciatesi alla vita tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta soprattutto, Giuseppe Del Ninno, studioso di cinema e di scienze tradizionali, di storia delle idee ed osservatore della contemporaneità con un approccio metapolitico, ha pubblicato un libro di straordinario interesse mettendo in fila le pellicole che hanno contribuito a mutare la percezione della realtà. Piombo, sogni e celluloide (Oaks editrice, pp. 178, € 16,00) è una “passeggiata” nel tempo in compagnia di grandi registi e di prodotti dei quali, malinconicamente avvertiamo la la mancanza. Non è un caso che oggi la cinematografia ha un impatto sulle masse molto inferiore al passato, vuoi per concorrenza di altri strumenti “spettacolari” comunicativi, vuoi soprattutto per mancanza di idee.
I film presi in considerazione da Del Ninno, per quanto diversi tra loro, hanno in comune un medesimo filo conduttore: la narrazione del disfacimento (da taluni ingegni fortemente sollecitato con i loro prodotti) delle istituzioni civili tradizionali che ha aperto la strada al dilagare di una violenza materiale, psicologica e culturale di rara intensità in società apparentemente pacificate e addirittura “affluenti” come si diceva una volta. Ma vi è stato pure chi, in nome di una reazione ancorché non esplicita, i prodromi di tale violenza ha analizzato efficacemente al punto di portare in auge nuove scienze come l’etologia ed i suoi “profeti”, tra i quali Konrad Lorenz ed Irenaeus Eibl-Eibesfeldt, puntando sulla diagnosi, per esempio, dell’aggressività con il ricco corredo di considerazioni che ne discendono.
Valga per tutti, al riguardo, il film Arancia meccanica di Stanley Kubrick, tratto dal romanzo omonimo di Anthony Burgess. Ma anche, sempre in tema di violenza sotto le spoglie dell’omologazione socio-culturale, un film come Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman aprì la strada alla diagnosi del neo-conformismo che sarebbe poi stato codificato come Pensiero Unico.
Due esempi che lasciano supporre l’intento che ha animato Del Ninno nel comporre questo vasto mosaico: offrire attraverso le immagini cinematografiche il racconto di una modernità in divenire che sotto le spoglie dell’irruenza sessuale, della trasgressione sociale, della provocazione intellettuale, del dispiegarsi delle solitudini nelle aree opulente del Pianeta, della disperata attrazione del vuoto da parte di generazioni che non si fidavano più della famiglia (al riguardo la cinematografia tedesca degli anni Settanta è stata particolarmente copiosa di opere) mostrava i sintomi di quella decadenza preconizzata da filosofi e morfologi della storia negli anni Venti e Trenta del Novecento.
Il che, naturalmente, non esaurisce il libro di Del Ninno la cui “cifra” è molto più ampia, passando dalle tenebre di Blade Runner alla bellezza formale, sia pur discutibile sotto il profilo semantico, di Amadeus. Convivono, capitolo dopo capitolo, domande sull’orrore e la redenzione, sul disfacimento e sulla salvezza. E sembra che dalle pagine del libro si levi un urlo dal quale si percepisce appena una richiesta di comprensione per ciò che stava accadendo sotto i nostri occhi e nessuno era in grado di decifrare forse perché il tempo non era ancora maturo per formulare una anamnesi compiuta.
È dunque una raccolta di frammenti d’epoca questo lavoro, nato sul campo si potrebbe dire, che messi insieme danno il senso di una spettacolare rappresentazione che tra profano (Ultimo tango a Parigi) e religioso (Mission) rende compiutamente l’idea che il lungo tormento gravato sulle nostre vite per oltre vent’anni non poteva che avere l’esito contraddittorio che oggi sperimentiamo.
Il fatto che tale inquietante tormento lo abbia colto il cinema forse è un dato sul quale riflettere. Così come fa riflettere che nella filmografia presa in considerazione da Del Ninno c’è tanto di un radicalismo che inconsapevolmente, vogliamo credere, ha fatto da sponda alla devastazione di un mondo senza costruirne un altro.
Si dirà che non è questo il compito dell’artista, ma è pur vero che quando ci si industria nello scavo del malessere e lo si enfatizza fino a renderlo fruibile a beneficio delle generazioni meno accorte e più sensibili a gettarsi allo sbaraglio o ad assumere connotazioni presentate positivamente, non si può che convenire nella critica ad una cultura che ha fornito gli strumenti o gli alibi per mettere in discussione un principio fondamentale al centro di ogni comunità: il principio dell’autorità. Nella scuola, sul posto di lavoro, in famiglia, negli aggregati più disparati compresa la Chiesa cattolica.
Del Ninno osserva: “Rimettere in discussione gli assetti consolidati della famiglia, della società, della politica, spesso comportava in quegli anni decisioni drammatiche; i veleni somministrati quotidianamente dal dibattito politico e dalle sue amplificazioni mediatiche indebolivano ogni autorità e minavano ogni certezza, fino a mettere l’uno contro l’altro non solo i partiti, i ceti sociali e perfino i componenti di una stessa famiglia”.
In qualche modo, la cinematografia di quel tempo, al di là di tutto, ha osservato ciò che il suo esegeta mette in evidenza con queste parole. Il piombo ed i sogni, come ci ricorda Del Ninno, si sono inseguiti per anni. E si sono imposti nelle vite proiettate sul grande schermo. A noi che quei film li abbiamo visti e di essi ci siamo nutriti, insieme con molte altre pietanze intellettuali, spesso disgustose, resta comunque e paradossalmente un filo di nostalgia e di amarezza. Dopotutto, quel tempo era un tempo di speranze, di realizzazioni intraviste, di costruzioni immaginate, di velleità coltivate. Ma oggi? L’immenso Akira Kurosawa, autore tra gli altri dello splendido Kagemusha, una volta, per spiegare il successo presso il pubblico giovanile di questa sua opera, disse: “I politici non fanno nulla per l’umanità, pensano solo in termini di economia… Gli intellettuali sono diventati funzionari televisivi. Anche i registi”. Era il 1980. Dopo trentotto anni la situazione è sensibilmente peggiorata. Gli eroi, i miti e i sogni sono ombre, per i più insignificanti. Restano i fiori malsani della cultura che ha irrorato il piombo. Non è un bel vedere.