In questo momento simbolico per la Siria, in cui il regime si prepara all’offensiva che potrebbe essere decisiva sull’enclave ribelle di Idlib, l’incontro di altissimo livello ospitato oggi in Iran tra i presidenti dei tre paesi che guidano il cosiddetto “processo di Astana”, alternativo ai negoziati Onu, è un passaggio cruciale.
L’iraniano padrone di casa, Hassan Rouhani, ha visto personalmente il russo Vladimir Putin – alleati di ferro nel sostentamento del rais siriano Bashar el Assad – e il turco Recep Tayyp Erdogan, che per lunghi anni ha sostenuto l’opposizione al governo dispotico di Damasco, salvo poi seguire una via più pragmatica e sposare i colloqui politici ideati dalla Russia.
È del tutto lecito pensare che, vista la delicatezza della situazione – la battaglia di Idlib che sta iniziando potrebbe aprire la strada verso la soluzione conclusiva dei sette anni di conflitto e sul futuro politico della Siria – e l’elevato livello dei partecipanti, i reali contenuti discussi al Trilateral Summit siano distanti dalle dichiarazioni uscite sui media.
Dichiarazioni che molto utili comunque per segnare la differenza di posizione e spiegare come gli interessi personali abbiano portato i tre grandi attori a lavorare congiuntamente sebbene vedano la crisi siriano ognuno con la propria lente e senza troppi sostanziali piani comuni.
La Turchia, per esempio, ha chiesto l’immediato cessate il fuoco sulla fascia meridionale di Idlib, dove russi e siriani hanno iniziati i bombardamenti nei giorni scorsi (e stanno continuando) per aprire il corridoio sud a successive avanzate dei governativi (le truppe del governo sono costituite da qualche risicata unità dell’esercito siriano e nel grosso dalle milizie sciite che l’Iran ha smobilitato da mezzo Medio Oriente come fossero suoi soldati, per combattere per Assad, alawita sciita, contro i gruppi d’opposizione, armati o meno, sunniti).
Russia e Iran non hanno replicato alla richiesta di Erdogan: Putin ha detto che “sarebbe bello”, ma aggiunto che “non possiamo garantire per i terroristi”, semplificando la realtà complessa della situazione, dove i gruppi armati hard-core dell’opposizione (essenzialmente quelli che si rifacevano a visioni qaediste) sono non più di mille combattenti, su quasi tre milioni di civili.
Rouhani ha invece sottolineato come prioritaria la necessità di “costringere gli Stati Uniti a lasciare il paese”: l’iraniano intende le truppe americane che si trovano in Siria per combattere lo Stato islamico, operazioni che non interferiscono con quelle governative progettate da Teheran, ma che agli ayatollah impediscono a livello di dissuasione di muoversi liberamente e trasformare la Siria in una piattaforma militare al confine del detestato Israele, e del Libano, paese che l’ascesa politica di Hezbollah ha trasformato in una specie di satellite iraniano.
I soldati statunitensi che Rouhani vuole fuori dai piedi si trovano soprattutto al nord, da dove sono scesi fino alle aree centro-orientali di Deir Ezzor: si sono mossi fin da subito in accoppiata con le milizie curdo-siriane, che ora si trovano, inseguendo le fughe del Califfo, a controllare fette di territorio all’interno del bacino petrolifero siriano. Damasco rivuole indietro i suoi pozzi, prima gestiti in una stramba partnership coi baghdadisti, che invece per i curdi potrebbero essere ragione statuale. La Turchia appoggia discretamente le richieste siriane – e iraniane – perché considera i curdi di Siria nemici e cugini di quelli di casa propria, contro cui il presidente Erdogan combatte una sorta di pulizia etnica, soltanto più educata, e perché sa che è con loro che in generale è con Damasco, Mosca e Teheran che occorre interloquire per evitare la catastrofe umanitaria su Idlib che potrebbe portare decine di migliaia di persone ad attraversare il confine turco-siriano per trovare rifugio dalla guerra (per questo Ankara ha già alzato le misure di protezione e chiusura su quei confini).
Poi ci sono i russi: per Mosca la questione siriana è strategica. La matassa da sciogliere è iper aggrovigliata, ma Putin ci ha investito tempo e tanto denaro, e il Cremlino deve ottenere una qualche vittoria da mostrare ai propri cittadini innervositi dalla crisi economica. In palio c’è la sostituzione americana in Medio Oriente, spazio che il presidente russo ha provato a sfruttare fin dall’inizio, dando pieno sostegno all’alleato siriano, pensando non solo al valore strategico di postazioni come la grande base di Hmeimim (che in proiezione potrebbe diventare il contraltare di Al Udeid, dove in Qatar gli americani hanno la sede del CentCom) o dello sbocco mediterraneo diretto a Tartus, ma in generale al ruolo globale conseguente alla soluzione del conflitto e all’installazione nel cuore della regione più calda del mondo.
Mosca è tornata a ribadire che i ribelli potrebbero organizzare nuovi attacchi chimici a Idlib, continuando su una campagna di disinformazione preventiva che servirà a Putin per togliersi di dosso accuse umanitarie che ne metterebbero in cattiva luce il ruolo di interlocutore e garante di tutte le parti (che la Russia da sempre vuol darsi) se qualcuno dei suoi alleati, per esempio il regime stesso, dovesse decidere di usare armi non convenzionali per fiaccare la psicologia dei nemici ribelli – come già successo in passato.
Ieri, Jim Jeffrey, nella sua prima intervista dopo che due settimane fa è stato nominato delegato degli Stati Uniti per la crisi siriana, ha annunciato che le intelligence americane hanno “moltissime prove” che portano a pensare che in realtà sarà il regime di Assad a usare le armi chimiche su Idlib. Si tratta di informazioni raccolte dal campo, ma anche di immagini satellitari e scambio di dati con gli alleati – che sulla Siria arrivano più che altro da Israele, che tiene un profilo basso per quel che riguarda i risvolti politici e pratici della crisi, ma monitora tutto ciò che accade.
Il presidente americano, Donald Trump, che come pensiero teorico vorrebbe tenersi il più lontano possibile dalle dinamiche complesse che riguardano il conflitto siriano, ha già annunciato giorni fa che qualsiasi genere di uso di armi chimiche imputabile al regime sarà punito con un’azione militare, come già successo ad aprile del 2017, quando pare che addirittura Trump pensò a una killer-op per assassinare Assad dopo l’attacco a Khan Shaykhoun. Washington da giorni mette in guardia sulla campagna di propaganda russo-iraniana a proposito delle armi chimiche usate dai ribelli: pretesto con cui Mosca e Teheran potrebbero, per propri e differenti interessi come detto, usare anche per dare il via libero ad Assad verso la soluzione finale contro le opposizioni. Il governo siriano “ha il diritto” di riprendere il controllo di tutto il Paese, ha detto oggi Putin da Teheran.