Se chi è tradizionalmente il miglior compratore di Btp, dunque di debito italiano, comincia a venderlo, allora il problema c’è. Eccome. Dei danni dello spread sui bilanci delle banche si è detto molto, ma stavolta è diverso. C’è in gioco la possibilità di garantirsi liquidità.
Piccolo pro-memoria. Tra la diffusione delle prime misure contenute nel contratto gialloverde (maggio) e agosto, i rialzi dello spread hanno cancellato l’enorme lavoro delle banche italiane nel primo semestre sotto due profili: da un lato tagliando le gambe al Cet 1 ratio, l’indice di solidità patrimoniale, dall’altro frenando molto la raccolta dei fondi comuni.
Se si pensa solo alla raccolta dei Pir, i piani individuali di risparmio gestiti dagli istituti, lo scorso anno era stata di 10 miliardi di euro, mentre a giugno era ferma alla metà, 2,5 miliardi nei primi sei mesi. A livello generale, il saldo dei fondi comuni a giugno è stato positivo per 9,32 miliardi contro i 56,9 miliardi dello scorso anno. Fine del promemoria.
Adesso c’è il futuro, contenuto in un report di Citi, forse il conglomerato finanziario più grande d’America. C’è un dato più di tutti deve lasciar riflettere. Gli istituti, che ieri hanno fatto capire al governo di condividere poco o niente del Def (qui l’articolo), stanno vendendo grossi stock di Btp, 17,5 miliardi finora, per la precisione. Non è un bel segnale in un momento in cui il Tesoro si affanna a garantirsi compratori di debito in vista della fine del Qe da parte della Bce, aumentando peraltro gli interessi sulle cedole per invogliare gli investitori a farsi avanti. Eppure è così.
Il fatto è che lo spread sta martellando gli istituti di credito italiani da due lati: da un lato taglia la solidità patrimoniale andando a premere sul Cet 1 ratio, come detto innanzi, dall’altro aumenta il premio di rischio sugli Npl: i crediti deteriorati in pancia alle banche vengono cioè valutati meno e sono più difficilmente liquidabili. E così, per diminuire il peso di tali asset e sopperire alla liquidità intaccata nel tempo, agli istituti di credito non resta che vendere Btp.
Secondo i calcoli di Citi, l’esposizione complessiva delle banche nei titoli di stato italiani era, al 30 giugno scorso, di 167,2 miliardi di euro, con una riduzione di 17,5 miliardi al 30 giugno rispetto all’anno precedente, ovvero un calo del 9%. Intesa ha ceduto per esempio, anno su anno, secondo i conti di Citi, l’11% del portafoglio Btp pari a 9,3 miliardi, Banco Bpm ha venduto 7,1 miliardi pari al 27% dei titoli in portafoglio, Ubi ha ceduto 2 miliardi, ovvero il 17%. Di più. Gli analisti della banca Usa hanno calcolato che per ogni rialzo medio di spread dello 0,5% (50 punti base) il Cet 1 ratio perde nel complesso 19 punti base. Insomma, il differenziale picchia e picchia duro. Arrivando a mettere in discussione la fiducia delle banche nel debito italiano, vista la mole di Btp ceduti nelle ultime settimane.
Non è un caso che due giorni fa sul fronte Btp Victor Massiah, consigliere delegato di Ubi, abbia spiegato che “prima avevamo una concentrazione notevole, oltre il 90% sui titoli governativi. Adesso la concentrazione è di circa il 60. Al 2020 prevediamo di arrivare al 50 per cento. Buona parte della strada è stata già percorsa ed è rimasta una coda estremamente limitata”.
Ma per Intesa Sanpaolo il guado si può superare. Proprio oggi è arrivata un’importante apertura alla creatura a 5 Stelle, quel reddito di cittadinanza cui verranno destinati 9 miliardi di euro. Carlo Messina, numero uno dell’istituto, si è detto favorevole a promuovere la formazione nell’ambito della riorganizzazione dei centri per l’impiego, propedeutica alla distribuzione del reddito stesso. Luigi Di Maio ha colto l’assist al balzo, ringraziando Messina pubblicamente, su Facebook.
“Ringrazio Messina per la disponibilità a supportare i centri per l’impiego che saranno il fulcro della rivoluzione per il lavoro: abbiamo stanziato un miliardo per rifarli da cima a fondo. Mi auguro che anche altre imprese partecipino a questo percorso. Abbiamo bisogno di sapere dagli imprenditori le competenze di cui hanno bisogno per poter intervenire nel processo di formazione al lavoro e andare incontro alle loro esigenze”.