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Perché Trump vincerà le elezioni di midterm. La previsione di Alegi (Luiss)

Basteranno tasse non pagate, interferenze russe, debolezze di carattere, razzismo e sessismo a far perdere Donald Trump nelle elezioni di metà mandato del 6 novembre? A leggere le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, sì. A leggere gli Stati Uniti da vicino, probabilmente no.

I democratici hanno dalla loro l’alta partecipazione alle primarie, il coinvolgimento delle minoranze e la possibilità di capitalizzare sulla protesta generica, ma Trump ha dalla sua la disoccupazione ai minimi storici e alcuni successi politici (tra cui la conferma del giudice costituzionale Brett Kavanaugh, l’approvazione del divieto d’ingresso e la revisione del Nafta) che ne consolidano l’attrattiva presso la propria base.

Se i fattori in gioco sono chiari, resta difficile prevedere come interagiranno. Per farlo, bisogna ricordare che si vota con il cuore ma si analizza con il cervello. Invertire l’ordine induce a scambiare le speranze con la realtà, come accadeva ai tempi di Ronald Reagan, tanto dileggiato dai giornali quanto sistematicamente rieletto. In più, anche nel Paese che ha inventato la demoscopia, i sondaggi faticano a catturare la realtà, un po’ per la nota tendenza a nascondere le opinioni ritenute impopolari, un po’ perché i modelli di riferimento sono tarati su una situazione poco rappresentativa dell’attuale clima politico, con un elettorato in libera uscita dai partiti tradizionali.

Fatte queste premesse, è fuor di dubbio che le elezioni di midterm vedono quasi sempre il partito del presidente perdere seggi. Negli ultimi 40 anni sono riusciti a guadagnarne solo Bill Clinton (forte di un tasso di approvazione del 66%), e George W. Bush (63%, trainato dall’ondata di patriottismo post-11 settembre). Da Carter a Obama, tutti gli altri hanno perso seggi, con punte di 63 alla camera e 6 al senato per Obama nel 2010. Trump è al 40% di popolarità, minimo storico dopo il 39% di Bush nel 2006. Che perda seggi è dunque quasi scontato. Quanti, è difficile dirlo.

Per il 6 novembre, i principali sondaggi stimano al 68-80% la possibilità che i democratici vincano la Camera dei rappresentanti, che viene rinnovata per intero ogni due anni. La possibilità è molto alta perché i collegi che potrebbero passare di mano sono 64, circa tre volte i 23 seggi che sono l’attuale margine repubblicano. La possibilità di un senato democratico è invece stimata appena al 27-34%, perché sono democratici i due terzi dei seggi senatoriali a rischio ribaltone (13 su 33 in cui si vota). Dati interessanti, ma che provengono da chi due anni fa non aveva intercettato l’arrivo dello tsunami Trump.

Tutto questo è comunque a livello aggregato. Ma la battaglia si giocherà nei singoli collegi, dove è tutto da vedere se chi ha vinto le primarie galvanizzando i militanti – semplificando, l’elettorato più radicale – riuscirà a raccogliere voti da tutti gli altri. La prima incognita è l’affluenza al voto, tipicamente bassa tra gli ispanici e i giovani che però sono la parte più vocale e militante del partito democratico. Questo vale per Alexandria Ocasio-Cortez, 29 anni, ispanica nel 14° Distretto di New York, ma non solo. In Texas e Vermont i democratici schierano come candidati governatori Lupe Valdez, 70 anni, ispanica, ex sceriffo, lesbica, e Christine Hallquist, 62 anni, ex dirigente, transessuale. Certo le elezioni sono distinte, ma poiché quelle per 36 governatori si svolgeranno insieme alle politiche, c’è il rischio che scelte così coraggiose spaventino i moderati, anche di altri stati, senza compensare con un adeguato numero di rivoluzionari.

Tutto questo senza considerare la propaganda politica. Al 30 settembre, ricorda l’indispensabile briefing di Bruce Mehlman, i partiti avevano speso cifre record, superiori di un terzo al midterm del 2014 e proiettate verso il doppio. La brillante campagna di manipolazione russa sembra assente, ma nulla è dato sapere sul versante religioso, ancora schierato con Trump, non in nome delle virtù teologali ma delle politiche conservatrici: Kavanaugh val bene un bugiardo.

In conclusione, il risultato più probabile è forse ancora quello di camere in due mani diverse. Trump potrebbe addirittura consolidare la maggioranza in senato, al quale la costituzione del 1789 affida la ratifica delle nomine (a partire dalla Corte suprema, come ha ricordato in questi giorni la tragicomica vicenda Kavanaugh) e dei trattati internazionali. In altre parole, anche senza la Camera, Trump potrebbe continuare a governare come adesso, attraverso decreti presidenziali (perché tali sono gli Executive orders) e nomine di parte ratificate da un senato compiacente. La Camera potrebbe in teoria bocciare il bilancio di Trump, condannando il Paese all’esercizio provvisorio, o votare impeachment a raffica, lasciando però l’eventuale condanna al senato. Che, come si è visto nel caso Kavanaugh, non va tanto per il sottile quando si tratta di difendere il presidente attraverso i suoi candidati.

In termini elettorali, Trump può forse perdere. In termini politici, ha probabilmente già vinto e può continuare a governare con l’occhio fisso al 2020, anche per la mancanza di candidati e politiche credibili da parte democratica. Sempre che, naturalmente, il procuratore speciale Robert Mueller non raggiunga conclusioni tanto pesanti e univoche da far saltare ogni analisi.


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