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Le banche italiane non stanno poi così male. Per ora

Chissà se oggi lo spread farà un po’ meno paura. Le banche italiane, quelle grandi per intendersi, avranno anche risentito un po’ di mesi con il differenziale in rialzo, ma non così tanto. Altrimenti non avrebbero superato i tanto temuti stress test, gli esami sui patrimoni delle banche effettuati dall’Eba, l’autorità bancaria europea, per testarne la solidità. E così Intesa Sanpaolo, Unicredit, Ubi e Banco Bpm, ovvero le uniche quattro grandi banche italiane sottoposte all’esame congiunto Eba-Bce hanno registrato esiti positivi.

I quattro istituti hanno riportato indici patrimoniali (Cet 1 ratio) superiori all’asticella minima del 5,5% nello scenario macroeconomico avverso, ritenuto più problematico e ampi margini di sicurezza nello scenario di base. Certo, si tratta di quattro istituti tra decine di altri, peraltro tra i più grossi. Ma è comunque un buon segnale se non altro per allontanare il più possibile il cosiddetto rischio sistemico nel sistema bancario.

Va detto che ogni banca fa caso a sé, anche perché diverse sono le posizioni patrimoniali di partenza e i livelli di rischiosità degli attivi. Ma il verdetto giunto oggi dall’Eba afferma un concetto chiaro: per mettere seriamente a rischio la tenuta di alcuni tra i maggiori istituti italiani bisogna fare molto peggio. L’unica banca che può avere dei problemi già con uno spread oltre i 350 punti base sarebbe Monte dei Paschi. La quale è però del Tesoro al 68% del capitale dopo il salvataggio di due anni fa e dunque riceverà un trattamento diverso dai normali stress test.

C’è da fare una considerazione, anzi due. Primo, l’esame odierno di fatto non declassa o innalza il rating di una banca, verifica esclusivamente la sua solidità. Questa sarà la base di partenza per gli esami che condurrà la vigilanza europea, la Bce, a gennaio, su tutte le banche vigilate. Dunque quello di oggi è solo un primo passo verso un più attento monitoraggio della situazione del credito in Europa.

Seconda riflessione, le prove odierne sono statiche poiché si basano sulla fotografia dei bilanci scattata il primo gennaio 2018. Non considerano quindi le operazioni di pulizia degli attivi varate nel corso di quest’anno (si pensi, oltre a Banco-Bpm, al caso della maxi-cessione dei circa 10,8 miliardi di deteriorati di Intesa Sanpaolo a Intrum). Che cosa significa? Che la situazione avrebbe potuto risultare più positiva di quella prospettata oggi. Oppure più negativa. Perché se è vero che gli esami dell’Eba non hanno tenuto conto delle maxi-cartolarizzazioni di inizio anno allora non hanno calcolato anche gli effetti dello spread da maggio in poi.

Il governo si è più volte detto pronto a intervenire con delle ricapitalizzazioni mirate in caso di necessità (qui il commento dell’economista Marcello Messori). E questo nonostante i forti rischi che una tale operazione potrebbe comportare, soprattutto sul versante degli aiuti di Stato. L’idea, come ricordato oggi dal sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giancarlo Giorgetti, sarebbe quello di copiare l’esempio di altri Paesi. E cioè “ricapitalizzare le banche che ne hanno bisogno, salvo uscire quando si sono risanate. Si è fatto spesso storicamente, nei momenti di crisi finanziaria. Lo hanno fatto in abbondanza americani e inglesi. La Germania ha stabilito regole europee per tutelarsi in tempo”. Lo spread comunque ha gradito, toccando i 288 punti base ai minimi da tre settimane. Buon segno?

 


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