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Brexit, è ora di pensare alla Borsa di Milano

Su due punti ancora piuttosto oscuri dell’intesa zibaldone da oltre 500 pagine che sta facendo traballare la premier Theresa May ci sarebbe da fare davvero squadra da questa parte delle Alpi. Innanzitutto, il vero braccio di ferro tra a Londra e Bruxelles sulla Brexit sarà sulla finanza, come ho scritto ne Gli Arrabbiati (che verrà presentato il 20 novembre alle ore 16 al Senato in sala Nassirya nel corso di un evento organizzato da La Scossa). A Bruxelles da tempo si sta studiando una revisione tutta a favore degli europei degli accordi sulle stanze di compensazione finanziaria dei prodotti venduti sui mercati, in pratica dove si fanno i calcoli del dare-avere a fine giornata. Ebbene, la Commissione Europea vorrebbe riportare nello spazio comunitario un rigido controllo appunto ”dell’euro clearing market”, predisponendo una centralizzazione della vigilanza laddove fossero coinvolte ”funzioni critiche per il mercato dei capitali” e la stabilità del mercato unico. Non proprio una cosa marginale. Il problema delle stanze di compensazione è in effetti nevralgico per la borsa di Londra, la prima al mondo insieme a Wall Street.

I tre quarti dei derivati denominati in euro nel mondo vengono infatti scambiati nella City, per un controvalore nozionale di 850 miliardi al giorno. Una cifra immensa che permette grandissimi guadagni sulle commissioni: gli inglesi non ci rinunceranno mai, a meno di arrivare alle maniere forti o tornare sui propri passi. La prima candidata a scippare questa gallina dalle uova d’oro alla London Clearing House (Lch, appunto la società inglese che fa queste contrattazioni) potrebbe essere la borsa di Francoforte, ma anche quella di Milano. Tra l’altro Milano avrebbe dalla sua il fatto di essere comunque controllata dal London Stock Exchange, che possiede anche Lch. Il mercato delle compensazioni finanziarie è da tempo nel mirino dei francesi, che anch’essi vorrebbero trasferirlo nell’Eurozona. Ma noi italiani possiamo giocarcela se il governo Conte adottasse subito un piano per rendere ancor più attraente Piazza Affari, la borsa peraltro della città più europea del Belpaese, che con i suoi 9 milioni di turisti nell’ultimo anno ha battuto persino Roma.

Che sarà invece del diritto comunitario? È una domanda che dobbiamo porci nella patria del diritto medesimo. L’accordo di ritiro, ha sottolineato giustamente Eunews, include molte regole Ue, a partire da diritti dei cittadini e obblighi finanziari. Per questo la Corte di giustizia ha voce in capitolo sul rispetto dell’accordi di divorzio, sarà decisore di ultima istanza, insomma. Nello specifico è stabilito che in caso di controversia sull’interpretazione dell’accordo di uscita, una prima consultazione politica si svolgerà in una commissione mista. Se non viene trovata alcuna soluzione, ciascuna delle parti può sottoporre la controversia ad arbitrato vincolante. E se la controversia riguarda una questione di diritto dell’Ue, il collegio arbitrale ha l’obbligo di sottoporre la questione proprio alla Corte di giustizia per una decisione vincolante.

E in Corte ci sono avvocati e giudici italiani e di tutti gli altri paesi dell’Ue. Una sorta di cessione di sovranità giuridica non di poco conto per la Gran Bretagna, che dovrà poi dotarsi anche di un diritto finanziario di nuovo conio, visto che finora ha applicato alla City direttamente le norme europee. L’Italia può mettere in campo le migliori menti accademiche per creare una scuola di esperti su tutti i risvolti della Brexit. Chi scrive ci sta già pensando ad avviare dei master post lauream su Antitrust e mercato unico per formare i professionisti del futuro dell’Unione a 27 senza Londra. Abbiamo tempo fino al 31 dicembre 2020 per decidere se siamo in grado di scippare questa leadership, finanziaria e giuridica, a chi ha deciso di lasciare il mercato unico e la deprecata Unione Europea. Non provarci sarebbe un delitto.


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