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Cento anni dal Tramonto dell’Occidente di Spengler. Un convegno a Milano

Uno dei libri che salverei da una biblioteca in fiamme è Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Libro universale che il tempo non ha “consumato” perché, lo si ammetta o meno, direttamente o indirettamente, è uno di quelli che ha profondamente inciso nella cultura europea. Allo stesso modo, per fare due esempi, di come incisero, sia pur dopo incomprensioni e resistenze, Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche.

Spengler, non meno dei due filosofi, conquistò, affascinò ed irretì la borghesia tedesca del secondo decennio del Novecento per affermarsi, con la forza di una inoppugnabile diagnosi della decadenza, in tutta l’Europa squassata dalla Guerra Mondiale i cui esiti diedero forza al Tramonto che si presentava, ben oltre le intenzioni del suo autore, come l’esame di coscienza di un Occidente spaventato di fronte a se stesso. Spaventato e disorientato non meno di quanto lo sia oggi, a cento anni dalla pubblicazione dell’opera, il fatale 1918 (uscita del primo volume) ed il non meno tumultuoso 1922 (quando venne pubblicato il secondo).

Spengler mette davanti agli europei la decadenza già preconizzata da Schopenhauer e da Nietzsche, che non riuscivano all’epoca ad accettare. Mancava il motivo: la gaia apocalisse, infatti, non si era ancora manifestata nelle devastanti forme post- belliche e, dunque, non poteva scuotere i vecchi europei che dopo il 1918 guardarono in faccia la nuova realtà restando atterriti dal vuoto.

Quando Il tramonto dell’Occidente apparve fu facile denigrarlo, da parte di chi si rifiutava perfino di considerare la “diagnosi” in esso formulata, come il prodotto della Germania sconfitta. Eppure esso venne partorito nel 1911 quando l’Impero guglielmino ancora si illudeva che il suo destino potesse essere diverso, come quello del resto d’Europa. I segni che sinistramente si erano manifestati dalla Grande Rivoluzione in poi non erano serviti né alle oligarchie continentali, né ai borghesi e neppure alla nascente classe operaia che immaginava la sua emancipazione distruggendo il vecchio ordine. Non c’era più niente da distruggere; tutto si era già compiuto. L’Occidente barcollava sotto i colpi delle sue stesse utopie; la “guerra civile europea” non fece altro che certificare la crisi di un mondo che sopravviveva stentatamente illudendosi che, dopotutto, nulla sarebbe davvero cambiato.

Rileggendolo cento anni dopo, possiamo chiederci qual è il significato del Tramonto dell’Occidente. Se è vero che “la civiltà è una pianta”, come sostiene Spengler, è anche vero che è destinata ad agonizzare; le sue foglie ad ingiallire; non aspetta altro che morire. Nessuno sa dire quando l’evento si verificherà. E credo che nessuno possa mettere in discussione questa “verità” preconizzata da Spengler il quale, da morfologo della storia, non si illudeva di poter suggerire ricette miracolistiche per evitarlo. Le civiltà, dopotutto, sono organismi, caratterizzate da un destino quasi biologico che deve inevitabilmente concludere il suo ciclo. Possono rifiorire, naturalmente, ma in altre forme.

Dalle macerie occidentali nelle quali ci aggiriamo che cosa può nascere? È su questo interrogativo che si ferma la lunga meditazione spengleriana improntata ad un realismo glaciale e perciò degna di considerazione al di là di speranze ottuse nutrite tanto per allontanare lo spettro di una crisi senza sbocchi.

Nel corso di un secolo la situazione si è aggravata. La prospettiva spengleriana assume le fattezze di una profezia realizzata. Il nichilismo – che Benedetto Croce, per esempio, non colse leggendo il Tramonto , limitandosi a “fare gli scongiuri” – è nella manifestazione della disorganicità rappresentata dallo studioso della quale le megalopoli mostruose che stanno distruggendo l’individuo sono forse l’esempio più eloquente, non meno della consapevole distruzione del Pianeta sommerso dalla tecnica onnipotente, ingannatrice come l’idea di progresso (curioso il parallelismo al riguardo che si potrebbe istituire con Georges Sorel), forma complessiva della dissoluzione prodotta dalla glorificazione del violento razionalismo che ha travolto tradizioni, costumi, identità, specificità di popoli.

Quando intraprese l’immane lavoro che sarebbe diventato Il tramonto dell’Occidente, Spengler, probabilmente, non si rendeva pienamente conto di quanto la sua opera sarebbe stata attuale cento anni dopo. Egli era tuttavia consapevole del disfacimento europeo, ma inizialmente – prima che la “materia” crescesse tra le sue mani – aveva in animo di scrivere un romanzo storico, come i Buddenbrock di Thomas Mann, neppure immaginando che invece si sarebbe avvicinato alle Considerazioni di un impolitico del grande e precoce letterato tedesco. Poi, profondamente colpito dalla crisi di Agadir, si fece trascinare dalla passione civile e “metapolitica” verso la composizione di un saggio storico, o “romanzo storico” per alcuni, che divenne addirittura qualcosa di più. Spengler fu ispirato dal libro di Otto Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt (Storia del tramonto del mondo antico). L’opera fu completata nel 1914 ma la pubblicazione fu rimandata per lo scoppio della Prima guerra mondiale nel corso della quale Spengler visse poveramente, perché la sua eredità, investita fuori dall’Europa, era praticamente inutilizzabile.

“In questo libro – scriveva Spengler nell’Introduzione – si azzarda per la prima volta il tentativo di predeterminare la storia. Si tratta di seguire il destino di una civilità, e segnatamente dell’unica civiltà il cui compimento sia oggi in atto su questo pianeta, la civiltà euro-americana, negli stadi non ancora intrapresi”. L’oggetto è chiaro, il fine anche, ma le conseguenze?

Le civiltà, come tutte le forme vitali, appartengono al “mondo organico” e dunque rispondono ad un principio biologico. Perciò sono dotate di un’anima che le caratterizza. Avere una storia, coltivare un destino vuol dire aderire ai dettati dell’anima. Nel periodo ascendente di una civiltà (Kultur) predominano i valori spirituali e morali che danno il senso all’esistenza degli esseri che vivono secondo i dettami del diritto naturale; l’esistenza comunitaria è organizzata in ordini, caste, gerarchie; nei cuori dei popoli domina un profondo sentimento religioso che pervade l’arte, la politica, l’economia, la letteratura. Quando la civiltà invecchia e la sua anima si rattrappisce si passa allo stadio della “civilizzazione” (Zivilisation); al principio della qualità si sostituisce quello della quantità; all’artigianato, la tecnica; l’invasività della massificazione dei gusti e dei costumi travolge le differenze; alla città suggente vita dalla campagna ed organizzata a misura d’uomo, si sostituisce la megalopoli, cui si è fatto cenno, come estrema forma di indifferentismo, un termitaio senza più una dimensione umana; le società sono livellate, l’edonismo ed il denaro sono i soli valori riconosciuti.

“Solo quando, con l’avvento della civilizzazione – scrive Spengler – comincia la bassa marea di tutto il mondo delle forme, le strutture delle mere condizioni di vita affiorano nude e prepotenti: vengono i tempi nei quali il detto volgare che ‘fame e sesso’ sono i veri momenti dell’esistenza, cessa di essere sentito come una sfrontatezza, i tempi nei quali non il divenire forti in vista di un compito, bensì la felicità dei più, il benessere e la comodità, il panem et circenses, costituiscono il senso della vita e la grande politica dà luogo alla politica economica intesa quale fine a se stessa”.

Parole che sembrano scritte in questi torbidi tempi: furono pensate oltre un secolo fa, quando Spengler si trovò, trasportato dal sentire della decadenza, a descrivere ciò che inevitabilmente sarebbe accaduto.

Il tramonto dell’Occidente ebbe un grandissimo successo: la Germania umiliata dal Trattato di Versailles (1919) e la depressione economica del 1923, alimentata dall’iperinflazione, davano ragione a Spengler. Per i tedeschi le tesi contenute nella sua opera corrispondevano al loro sentire: grazie ad esse il crollo della Germania aveva un senso, diventava comprensibile. Il tramonto ebbe un successo enorme anche fuori dai confini nazionali, tradotto in molte lingue, accese un dibattito continentale. Spengler, ormai famoso, rifiutò comunque la cattedra di filosofia offertagli dall’università di Gottinga per concentrarsi sulla scrittura e lo studio.

Il Tramonto accese opinioni contrastanti. Per Thomas Mann era come leggere Arthur Schopenhauer per la prima volta; per Max Weber Spengler era un “dilettante molto ingegnoso e colto”; Ludwig Wittgenstein ne condivideva il pessimismo culturale. In Italia, Benedetto Croce, attendo alle evoluzioni del pensiero tedesco, poco elegantemente consigliò i lettori di Spengler di “fare gli scongiuri” prima di prendere in mano la sua opera.

Nel 1928, dieci anni dopo la pubblicazione del primo volume, la rivista americana “Time” pubblicò una recensione del solo secondo volume del Il tramonto dell’Occidente. Descriveva l’immensa influenza delle idee di Spengler ed il dibattito che aveva suscitato: “Quando il primo volume de Il tramonto dell’Occidente uscì alcuni anni fa, furono vendute migliaia di copie. Il dibattito colto in Europa presto si concentrò sulle tesi di Spengler. Lo spenglerismo “contagiava” innumerevoli intellettuali”.

Nel secondo volume (pubblicato nel 1922), Spengler sosteneva che il socialismo tedesco era altra cosa rispetto al marxismo – un saggio al riguardo lo intitolò Prussianesimo e socialismo – e che era compatibile con il tradizionale conservatorismo tedesco. Nel 1924, in seguito alle agitazioni politico-sociali e all’inflazione, Spengler cercò di influenzare, senza riuscirci, il tentativo nazional-conservatore di portare al potere il generale della Reichswehr Hans von Seeckt. Nel 1931 pubblicò L’Uomo e la tecnica, che metteva in guardia contro i pericoli della tecnologia, tema su cui si sarebbe esercitato Martin Heidegger insieme con molti altri pensatori della Rivoluzione conservatrice, e dell’industrialismo onnivoro.

Gli “anni della decisione” si avvicinavano ed il “tramonto dell’Occidente” diventava sempre più visibile anche agli ottimisti illusi dai “cesarismi” che sembravano offrire altre prospettive.

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