Dopo mesi dedicati alla propaganda attorno alla crescita economica – quella che serviva per giustificare l’avvio dei colloqui con il nemico giurato: gli Stati Uniti – Kim Jong-un s’è fatto riprendere nuovamente all’interno di una postazione militare. Il satrapo nordcoreano era all’Accademia della Scienza della Difesa – quella da cui vengono i migliori vettori missilistici, gli Hwasong-14 e Hwasong-15 – e da lì ha preso parte al test di “un nuovo sistema d’arma ultramoderno che costituisce un’inattaccabile difesa per il nostro Paese”.
La vicenda è piuttosto importante perché sono passati diversi mesi da quando i test missilistici nordcoreani erano diventati una terribile (semi) quotidianità, e nel frattempo il dittatore asiatico si è incontrato personalmente col Presidente americano, Donald Trump, intavolando un territorio di confronto negoziale con cui avviare il dialogo verso una qualche denuclearizzazione. A gennaio, Kim aveva annunciato una moratoria sui test atomici, aspetto che Pyongyang ha più volte usato per far leva sulle sue richieste al tavolo con gli americani.
Quella testata ieri è una “nuova arma tattica” – non un test nucleare – spiega il governo nordcoreano in un comunicato, ma senza dare ulteriori dettagli; probabile che si tratti di un sistema a corto raggio, non di uno strategico a lunga gittata; come al solito, la scelta semantica è fondamentale. Che il Nord continuasse con la progettazioni di vettori di questo genere non è una novità, come ha spiegato su queste colonne l’analista dell’Ispi Francesca Frassineti a proposito del polverone mediatico alzato i giorni scorsi dalla pubblicazione sulle grandi testate americane di un report del Center for Strategic and International Studies, think tank di Washington che sulla base dell’osservazioni di immagini raccolte da satelliti commerciali a marzo, aveva individuato una dozzina di centri di sviluppo del programma missilistico nordcoreano.
Tutto già noto, diceva anche il presidente Trump – ma la presenza di Kim a un test è di fatto una qualche novità sul dossier, che dovrebbe avere un altro scatto in avanti nei primi mesi del prossimo anno, quando i due leader dovrebbero incontrarsi di nuovo. Il dipartimento di Stato americano, guidato da Mike Pompeo, segretario che sta curando personalmente tutti i contatti con Pyongyang, ha fatto sapere di restare “fiduciosi che Kim manterrà gli impegni” presi al primo vertice con Trump, quello di Singapore il 12 giugno – ossia, da Foggy Bottom si cerca di edulcorare eventuali effetti del nuovo test, per proteggere tutti gli sforzi fatti finora per costruire una relazione con quello che viene a volte definito giornalisticamente “il regno eremita”.
Anche il vicepresidente americano, Mike Pence, attuale voce forte del contrasto alla Cina (in questi giorni in Asia per incontri), ha cercato di mantenere bassi i toni, calcando sul fatto che sono stati fatti progressi nella crisi nordcoreana “perché un anno fa volavano missili e ora non più”. Mentre da Pyongyang il test è pubblicizzato con un doppio intento: calmare qualche animo all’interno del regime che vede nei negoziati con gli americani un cedimento della forza di Kim; spiegare a Washington che le cose possono cambiare rapidamente, dalla disponibilità al ritorno al passato.
Una questione delicata, però, per Pyongyang e non troppo conveniente. Forse anche per questo sono circolate più immagini del leader della satrapia davanti un plastico di un progetto di sviluppo urbanistico, che quelle all’accademia.