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Cosa dobbiamo aspettarci dalla conferenza di Palermo per la Libia. Parla Amendola

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In Libia, sognando la stabilizzazione, si spera nei principi della conferenza programmatica di Palermo del 12 e 13 novembre. Intanto la situazione sul fronte diplomatico-organizzativo rimane concitata. Dopo la convocazione a Parigi dei vertici di Misurata per questo giovedì, anche il capo del governo di accordo nazionale libico internazionalmente riconosciuto, Fayez al Sarraj, ha deciso di recarsi nella città cardine del potere militare del Paese. Una visita che, secondo quanto si legge in una nota del governo di Tripoli, ha l’obiettivo di individuare le esigenze del luogo attraverso una serie di visite alle infrastrutture principali e di colloqui con i funzionari locali. E che sottolinea anche, senz’altro, l’assoluta fermezza dell’Onu a mantenere la situazione sotto la propria egida.

E proprio di unità e stabilizzazione sotto l’ala delle Nazioni Unite, di prospettive future e degli obiettivi di questa conferenza Formiche.net ne ha parlato con Vincenzo Amendola, già sottosegretario agli Esteri e alla cooperazione internazionale del governo Gentiloni. “Quello che dirà Salamè l’otto novembre al Consiglio di Sicurezza e di cui si discuterà a Palermo, rimarrà la strada prioritaria, quella che farà vedere la luce fuori dal tunnel dell’instabilità politica. Un Paese come l’Italia, quindi, ha e deve continuare ad avere la capacità di lavorare sulle convergenze più che sulle divergenze”, ha sottolineato Amendola. E per quanto riguarda la possibilità, avanzata nelle scorse ore, di una possibile assenza di Haftar al vertice siciliano, i dubbi e le perplessità sono d’obbligo. D’altra parte, se il generale della Cirenaica ci ha abituato ai suoi repentini cambi di programma, il lavoro del governo italiano nell’opera di convincimento e preparazione è stato fino ad ora certosino. “La squadra intorno al presidente Conte sta lavorando molto e tutti dobbiamo augurarci la presenza di Haftar”, ha aggiunto l’esponente del Partito democratico.

Ci avviciniamo alla data della conferenza di Palermo. Quali sono le basi sulle quali affonda le radici l’appuntamento?

Dobbiamo tutti, non solo chi è al governo, augurarci che questa sia una conferenza che porti dei risultati. Un appuntamento per il quale il presidente del Consiglio si sta impegnando molto, grazie anche ad uno staff diplomatico a Palazzo Chigi di primo livello, e che coinvolge con il massimo impegno sia il governo che il parlamento. Penso che in primo luogo per la sua riuscita sia necessario accantonare le rivalità intraeuropee che non ci fanno bene e, in secondo, abbandonare l’idea che tutto si possa risolvere con una photo opportunity. Quasi come se questa conferenza si possa tramutare nella rivincita dell’incontro di maggio all’Eliseo. Mettendo da parte questi due riflessi dobbiamo tutti augurarci che questo sia un incontro utile.

Quali gli obiettivi? La chiave per il successo dell’evento?

Da osservatore intravedo due obiettivi. Il primo è rappresentato dal fatto che Palermo arriva a pochi giorni dal prossimo briefing dell’otto novembre di Ghassan Salamè al Consiglio di Sicurezza, dove è evidente che l’inviato speciale dell’Onu farà un punto sul processo politico e sulle priorità che l’Unsmil porta avanti nel Paese. Palermo quindi potrà avere come fine quello di far ricevere, non solo dai membri del Cds, ma anche da un consesso più ampio degli amici della Libia e agli attori libici, un endoresment più ampio. Quello che Salamè proporrà in Consiglio di Sicurezza, dunque, potrà avere proprio a Palermo una condivisione maggiore. Naturalmente per uscire dal periodo di transizione e mettere in atto dei passaggi legislativi e costituzionali nel Paese, sarà necessario avere una grande unità di chi sta sostenendo la pacificazione . Il secondo obiettivo, poi, è quello di procedere con riforme economiche e di sicurezza specifiche (non dimentichiamo che questa conferenza nasce anche sull’onda degli scontri a Tripoli di quest’estate). Dunque, in sintesi, metterei da parte l’idea sia che il vertice possa essere definitivamente risolutivo, perché la Libia ha bisogno di grande pazienza strategica, sia le “risse intraeuropee” che non fanno bene a nessuno, e mi concentrerei su questi due obiettivi.

A proposito di quelle che lei definisce “risse intraeuropee”, come interpreta le mosse francesi degli ultimi giorni? In particolare la decisione di convocare i vertici di Misurata a Parigi a pochi giorni dalla conferenza siciliana?

L’Italia, portando avanti il suo ruolo di paziente tessitrice, non deve avere timore di questo. Ci sono molti Paesi che si adoperano per portare alla stabilizzazione del Paese. Tra questi, ad esempio c’è l’Egitto che lavora sul fattore sicurezza. Il ruolo dell’Italia non deve essere, dunque, quello di temere queste iniziative ma, con una grande pazienza diplomatica e profondità strategia deve lavorare per tessere tutti questi impegni e unificarli sotto l’egida dell’Onu. Quello che dirà Salamè l’otto novembre e di cui si discuterà a Palermo, rimarrà la strada prioritaria, quella che farà vedere la luce fuori dal tunnel dell’instabilità politica più velocemente. Un Paese come l’Italia, quindi, ha e deve continuare ad avere la capacità di lavorare sulle convergenze più che sulle divergenze.

Come si inserisce il ruolo di Giuseppe Perrone in questo contesto? L’ambasciatore italiano a Tripoli era rientrato a Roma quest’estate per motivi di sicurezza, ma potrebbe tornare in Libia a breve, considerando anche il via libera concesso da Haftar.

Non conosco bene la dinamica che è in capo a chi di dovere. So, però, che la scelta del governo Renzi e del ministro Gentiloni di riaprire l’ambasciata fu presa, all’epoca, con scherno e risate ma si è rivelata invece uno dei valori aggiunti di questo lavoro di tessitura e diplomazia paziente dell’Italia. Il fatto che l’Italia sia ancora, ad oggi, l’unico Paese europeo con un’ambasciata aperta a Tripoli è sicuramente un valore. Spero, d’altra parte, che dopo la conferenza tutto si possa chiarire in questo senso.

Il ruolo degli Stati Uniti?

È cambiata l’amministrazione ma continuo a vedere il ruolo degli Usa sotto un’ottica assolutamente positiva. Gli Stati Uniti hanno sempre dato una mano all’Italia e alla comunità internazionale per la stabilizzazione, la pacificazione e la lotta al terrorismo in Libia. Se dovessi giudicare il lavoro sia dell’amministrazione Obama che di quella di Trump, direi che i risultati sono positivi, l’impegno è stato continuo e molto solidale con gli alleati, come lo è stato anche quello di tutti i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza. Al fianco di Salamè, d’altronde, c’è un’ottima vice per gli affari politici, Stephanie T. Williams, diplomatica americana.

Prospettive future?

Compito dell’Italia è quello di mantenere questo quadro di unità. Più siamo uniti, più la ownership della soluzione politica, che comunque rimane sempre nelle mani degli attori libici, sarà efficace. Spesso, un riflesso dei vertici sono le dichiarazioni: ottime ma mancano di implementazione. Il ruolo fondamentale dell’Italia e di tutti gli attori internazionali, dunque, non deve finire con la conferenza ma cominciare dal giorno dopo.


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