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Macron, il catastrofismo climatico e la terza via soft

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Non si può più tacere, a sinistra, sul crollo di Macron. O rimuoverne, imbarazzati, le ragioni. Né confondere le cause, interpretandole come una rivolta populista contro il carovita. Non è una rivolta di poveri. Ma di classi medie. Non è una rivolta contro il prezzo dei carburanti. Ma contro un’imposizione brusca di cambiamenti degli stili di vita. Non è circoscritta alla Francia. Cova sotto le ceneri in tutto l’Occidente. La causa? Il dogmatismo ambientalista che combatte i cambiamenti climatici con le tasse, i divieti, il carovita, l’imposizione degli stili di vita e non con la tecnologia.

L’ambientalismo dogmatico esaspera il tema della “transizione ecologica”, il passaggio a consumi energetici che riducano il ricorso alle fonti fossili. L’ansia dei governi di produrre risultati in tempi brevi (meno di 30 anni) per il blocco delle temperature medie globali del pianeta (sotto il 2% di aumento dei gradi) sta portando ad un paradosso e ad una trappola: si perseguono politiche di emergenza. Queste politiche si vanno riducendo solo al proposito di abbattere, drasticamente e in tempi ristretti, le emissioni carbonifere: nella generazione di energia e nei trasporti. Ma le emissioni non diminuiscono mai, da 30 anni, da quando si è iniziato a parlare di contrasto alla CO2 come via per la mitigazione climatica. Emerge la frustrazione. E la trappola dei governi: meno diminuisce la CO2 in atmosfera, più si avvicina la data fatidica del 2030 (e del livello di CO2 in atmosfera ritenuto irreversibile per indurre l’inversione del clima) più si concentra l’attenzione dei politici solo sulle misure antiemissive. Intese, peraltro, non come innovazioni e cambiamenti indotti dalla tecnologia attraverso nuovi sistemi di generazione di energia e di gestione della mobilità, ma come drastiche limitazioni, imposte con la penalizzazione costosa dei consumi fossili, la tassazione, i divieti, i limiti. Questa modalità di contrasto ai cambiamenti climatici si sta dimostrando, al tempo stesso, inefficace (la CO2 non diminuisce mai) e impopolare: viene identificata con un cambiamento – troppo drastico, penalizzante, brusco e pesante – di stili di vita e di consumo.

In questi giorni alcuni esponenti liberal, scienziati o economisti, hanno segnalato il problema: la strada del contrasto ai cambiamenti climatici attraverso il drastico abbattimento delle emissioni (attraverso penalità, divieti e tassazione dei consumi) si rivela tanto costosa quanto inefficace. Sull’Avvenire, Stephen Chu, scienziato e ministro dell’energia di Obama, fiero avversario delle politiche ambientali di Trump, richiamava sulla necessità, però di privilegiare l’ottimismo della tecnologia alla via “brusca” delle misure che si propongono “di cambiare in tempi brevi abitudini, modelli, consumi, stili di vita della gente”. Sul Messaggero, Romano Prodi, da economista, chiamava in causa la “complessità” delle politiche antiemissive che, in 30 anni, non hanno dato alcun risultato. Che fare? Dare ragione allo scetticismo climatico di Trump?

Tra il climatismo catastrofista degli ambientalisti dogmatici e il negazionismo del riscaldamento di Trump c’è una terza via: quella che non nega i cambiamenti climatici ma li affronta con strategie soft, non penalizzanti dei consumi e degli stili di vita, di transizione graduale a “nuovi modelli di energia e consumi”. Attraverso la tecnologia invece che con le tasse. Una via troppo lenta? È questo pessimismo catastrofista, questa ansia per date ravvicinate di irreversibilità dei cambiamenti climatici che produrrebbero l’apocalisse, che sta ficcando le politiche climatiche in un vicolo cieco, nella paralisi, nella crisi di credibilità e nell’inefficacia. Nella storia della civiltà la costante “umana”, ai cambiamenti climatici (che ci sono sempre stati e sempre ci saranno) è stata l’adattamento ad essi. Attraverso la conoscenza, l’ingegneria, le invenzioni, la tecnologia. In tutti I campi: la mobilità, gli insediamenti abitativi, la mitigazione delle avversità naturali ecc.

Non c’è ragione per cui, solo per la nostra specie nella nostra epoca debba essere diverso. E debba prevalere il pessimismo. Nella sua intervista all’Avvenire, il liberal Chu, icona ambientalista, opponeva al pessimismo dei dogmatici del clima l’argomento che la nostra è, davvero, un’epoca di cambiamenti climatici e di surriscaldamento (da mitigare) ma è anche la più ricca, veloce, importante, fantastica, inedita di conoscenze, innovazioni tecnologiche, conquiste scientifiche. In ogni campo. Anche in quello della generazione di energia (nuove fonti di generazione, innovazioni nelle macchine di produzione dell’energia, sistemi di abbattimento degli inquinanti, tecnologie per il contenimento della CO2) e dei trasporti (mobilità elettrica, nuovi carburanti, nuovi sistemi di mobilità). Il rischio delle politiche governative sulle emissioni – penalizzanti, costose e punitive – è anche quello di deviare attenzione e risorse dalla ricerca, dalle innovazioni tecnologiche alle misure impositive sui consumi. Insostenibili. E che sfidano la sopportabilità delle persone. Di questo ci parla la Francia. Non solo Macron ma tutti i leader europei farebbero bene a prestare attenzione.

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