“È più importante la protezione delle persone che quella dei confini”. Con questa importantissima osservazione Chiara Peri, responsabile dei progetti del Centro Astalli, sezione italiana del Servizio dei Gesuiti ai Rifugiati, ha riassunto il senso culturale di un confronto che si fa sempre più profondo, ma che in qualche modo accompagna la comunità internazionale da quando settant’anni fa varata la Dichiarazione dei diritti umani. Un confronto che è rimasto anche nel cuore stesso dell’Onu, che da una parte ha ratificato quella Dichiarazione, dall’altra ne ha demandata l’attuazione agli Stati, anche quando sono quegli stessi Stati a violare i diritti umani, in ossequio alla non ingerenza. Così in questi anni è accaduto che venisse sottoposta all’approvazione del regime siriano e dei suoi organismi la stessa spedizione e confezione delle sacche di sangue per i feriti nei bombardamenti compiuti da quel regime, per fare un esempio. La non ingerenza così si confronta oggi proprio con questo problema: ovviamente tutte le nazioni rivendicano il monopolio della violenza o della “violenza legittima” dentro i propri confini. Ma questi tempi ci stanno svelando l’ambiguità di questa rivendicazione: riguarda la legittimità dei limiti della violenza o la legittimità di una violenza senza limiti? Sono questioni che hanno trovato una eco nelle parole di padre Camillo Ripamonti, il presidente del Centro Astalli, e di Jose Jgnacio Garcia, che ha illustrato i risultati di oltre 100 interviste raccolte dai gesuiti del Jrs in Sicilia, a Ceuta e Melilla, in Grecia, in Croazia, in Serbia, in Ungheria e inserite nel volume “Dimenticati ai confini d’Europa”.
L’accesso al territorio europeo infatti è una delle principali sfide per i richiedenti asilo, che non hanno quasi nessun modo di viaggiare legalmente. Nel continente che fu il continente del Muro di Berlino fino al 1989 e che da allora, per fortuna, non lo è più, crescono infatti nuove barriere, come a Melilla o in Ungheria, che sbarrano l’accesso a chi intende chiedere asilo politico. E così non può sorprendere che le interviste realizzate in Croazia e Serbia, ben 17, indichino violenze fisiche e respingimenti immediati da parte delle autorità frontaliere. Nel nome della legittimità dei limiti della violenza o nel nome di una violenza che può diventare senza limiti? Tra le testimonianze raccolte a Ceuta non può non colpire quella di un giovane, che fuggiva verso la Spagna e caduto da un muro rompendosi entrambe le caviglie, impossibilitato a camminare, si è trovato respinto in Marocco. Le autorità spagnole e marocchine, si è sottolineato, collaborano assiduamente anche nel pattugliamento del mare: i primi bloccano, i secondi riportano indietro, secondo uno schema che ricorda quello italo-libico. Ma il Jesuit Refugee Service sottolinea che il 31 agosto 2017 sette donne sono morte dopo che il loro barcone si è rovesciato mentre veniva scortato dalle autorità marocchine. Ma ciò che maggiormente impressiona è scoprire che non solo alle frontiere dell’Europa, ma anche a quelle interne, l’emergenza ormai sia tale dal punto di vista della tutela dei diritti umani, gravissima nelle isole greche.
“Le persone intervistate – ha affermato padre Jose Ignacio Garcia – raccontano di viaggi pericolosissimi e interminabili, in cui l’attraversamento del mare era solo l’ultima e la più visibile delle molte esperienze traumatizzanti a cui erano sopravvissute. Molti avevano subìto violenze e abusi durante il viaggio. Alcune donne ci hanno raccontato di come fossero state costrette a prostituirsi per pagare i trafficanti. Una somala di soli 19 anni, che era incinta durante il viaggio, ha raccontato di come uno dei trafficanti l’avesse minacciata di portarle via il suo bambino per venderlo appena nato, visto che lei non era in grado di pagare il prezzo esorbitante della pericolosa traversata del Mediterraneo”. Ma la situazione arrivati ai confini europei non migliora: “Respingimenti violenti alle frontiere rimangono una triste realtà in Europa. Anche per chi non viene respinto le procedure per chiedere asilo non sono chiare. Il regolamento di Dublino rimane un ostacolo per far sì che ogni domanda d’asilo venga effettivamente esaminata da almeno uno Stato membro dell’Ue, in pratica ha finito per trasformarsi in un deterrente per la presentazione stessa della domanda di protezione”.
Ma le storie dell’oggi non sono state solo riferite, bensì anche raccontate. Un giovane senegalese di 23 anni, Momodou, ha raccontato il suo viaggio attraverso Mali, Burkina Faso, Niger. Che i problemi comincino a diventare quasi insormontabili in Niger è noto. Non che nei sette giorni di traversata ai migranti manchi anche l’acqua. In Libia Momodou è finito per 3 settimane in un carcere illegale, segreto, dal quale si poteva uscire solo pagando. Dopo essere stato picchiato più volte ha accettato di pagare, 100 dollari. Poi è arrivato a Tripoli dove lavorava per una multinazionale, 12 ore al giorno come facchino, per 20 dollari giornalieri. 500 li ha usati per salire con altre 116 persone su un gommone: soccorso da una nave britannica è arrivato a Trapani, dove ha trascorso dieci giorni in un campo da basket senza avere notizie sul suo futuro. Poi è arrivato al Cara di Brindisi, dove è rimasto due anni. Non ha potuto studiare l’italiano in quel periodo come avrebbe voluto, e così ha deciso di iscriversi a un corso a pagamento. Ottenuta la protezione umanitaria ha avuto accesso a un centro Sprar. Lì ha studiato, ottenendo il diploma di terza media. Ora studia come perito meccanico e fa il mediatore culturale. Lui dice di voler rimanere in Italia: chissà se potrà. Come chissà che lavoro faranno i molti italiani che con il decreto sicurezza hanno perso il lavoro, ha osservato padre Camillo Ripamonti.