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I poveri e il reddito di cittadinanza. L’esperienza della Prima Repubblica

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La voglia di indignarsi viene forte in un contesto attraversato da menzogne palesi e balle planetarie, espresse da esponenti politici dell’attuale governo, ma anche dell’opposizione, al cospetto di immaginifiche e iperboliche ricette miracolose, avanzate sia dalla Lega che dal M5S, come il “reddito di cittadinanza”, che la propaganda dei pentastellati considera addirittura abolizione della povertà, trascurando di rasentare la comicità e forme teatrali di umorismo. Come se in passato nessuno mai si fosse occupato dei poveri, non della povertà, cosa ben diversa. Ma questi baldanzosi giovinotti che hanno scelto come loro mentori il duo Casaleggio-Grillo hanno mai aperto un libro di storia per conoscere cosa è stata l’esperienza di governo in Italia nella Prima Repubblica? Davvero si crede che basta distribuire qualche centinaio di euro alla gente per risolvere le difficoltà della crescita economica e per quietare il bisogno dei cittadini italiani più indigenti?

Per i poveri c’è stato un impegno costante dello Stato negli anni 1944/1992, a cominciare dall’allargamento del patrimonio edilizio popolare, dalla riforma agraria, dal sistema fiscale. Leggi approvate e attuate integralmente per pacificare lo Stato coi cittadini, usciti stremati dal secondo conflitto mondiale. Molti italiani da nullatenenti divennero proprietari. Altro che le cartelle da rottamare presso le agenzie delle entrate. “Colloqui sui poveri”, un libro pubblicato agli inizi della Repubblica da Amintore Fanfani, legato intimamente ai suoi amici professorini coi quali discuteva in ogni momento della crisi della società italiana nel dopoguerra, senza tralasciare come aiutare la gente meno abbiente a migliorare la propria condizione di vita. Riflessioni simili furono operate negli anni successivi da altri amici e colleghi dello statista di Arezzo.

Ettore Bernabei, in particolare, poco tempo prima di morire spiegò bene con un’altra sua opera: “L’Italia del “miracolo” e del futuro”, perché l’Italia fosse sotto attacco della speculazione economica e finanziaria alla fine della Prima Repubblica. I due libri guardano con occhi e cuore di cristiani al buon governo, soprattutto, per elevare il grado di benessere dei meno fortunati, dei più deboli, dei più bisognosi: la “politica come forma più alta di carità”, come diceva San Paolo VI. Bernabei spiega l’impegno politico dei cattolici, democristiani al governo, negli anni immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, proprio in riferimento alle scelte compiute a favore di chi, in un periodo di fame vera, viveva la condizione del profondo disagio. L’azione di governo iniziata da De Gasperi e proseguita da Fanfani si mosse verso un comune orizzonte: la ricostruzione e la crescita dell’Italia. L’opera dei due statisti, con altri esponenti di primo piano della Dc, ebbe il merito di produrre un benessere mai conosciuto prima dagli italiani.

Erano gli anni Cinquanta e Sessanta, quelli del famoso “miracolo economico”, che consentirono al Paese di collocarsi tra le prime quattro potenze economiche del pianeta. Come fu possibile tutto questo, in un tempo storico tanto problematico e difficile? Una mirabile e feconda sintesi tra sostegno pubblico e interesse privato risultò la formula vincente, che ebbe come faro la dottrina sociale della Chiesa mentre politiche economiche liberiste applicate in altri Paesi dell’Occidente furono scartate del tutto.

C’era nelle discussioni tra i vari esponenti della classe di governo di quel tempo un’idea di Paese che, dopo la guerra, una volta ricostruito, aveva bisogno di un forte sviluppo per garantire benessere agli italiani. E da qui si partì per raggiungere il grande traguardo: portare l’Italia tra le prime cinque potenze al mondo. Reddito di cittadinanza, flat tax, pensioni a quota 41 o 100 in quel tempo, come oggi, potevano essere considerati solo palliativi per mantenere in vita l’antica malattia del clientelismo, dell’elettoralismo per far vivere il proprio partito.

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